20 ottobre 2009

THE BIG PINK "A Brief History of Love" (4AD)


Finalmente un gruppo sudicio, spettinato, ruvido, un po’ punkabbestia nell’attitudine, che esce dalle cantine buie della periferia londinese, con un syntetizzatore e una collezione di dischi shoegaze sottobraccio. Robbie Furze e Milo Cordell si sono fatti notare con Velvet un muro di suono compatto e sintetico, distorto, sensuale, con un testo romantico dall’andamento pop mixato da Alan Moulder (My Bloody Valentine), ad oggi il miglior singolo del 2009. Un album che parla d’amore e dei sentieri impervi che bisogna percorrere per raggiungerlo, in cui s’incontrano infatuazione, depressione, rabbia e desiderio. Domino è un pezzo grandioso, grandi cori, sentimento pop, testo spavaldo, Crystal Vision è come la prima cotta non si scorda mai, mentre Love in Vain è un pezzo che vi farà piegare le ginocchia e venire le farfalle nello stomaco. My Bloody Valentine, i Sonic Youth di Daydream Nation, Cure, The Contino Sessions dei Death in Vegas sono esempi per descrivere il mood di questo album allucinante. Attenti sarà amore a primo ascolto.

16 ottobre 2009

FLORENCE + THE MACHINE




Florence Welch è un personaggio conosciuto nelle notti londinesi. Gli after che organizza nello squat dei Big Pink nella zona est della città sono leggendari, difficile trovare una party harder che le tenga testa. Nata a Londra ventidue anni fa, figlia dell’americana Evelyn Welch nota critica d’arte habitué dello Studio 54 e della Factory, da cui ha ereditato talento e desiderio di fare festa, Florence ha un carattere solare ed esuberante, ama la notte e la natura, è dolce ma anche ribelle, sicuramente da adolescente inscenava di dormire e scappava a notte fonda dai rami dell’albero che fanno capolino dal suo davanzale. Basta vedere quanto è a suo agio tra gli alberi di Hyde Park, dove l’abbiamo incontrata poco prima di aprire il concerto dell’estate: la reunion dei Blur. Lungs è il suo debutto discografico, ma per apprezzare del tutto Florence + the Machine bisogna vederla dal vivo, c’è un feeling speciale che la lega al palcoscenico che solca sempre a piedi nudi, come se si trovasse all’aria aperta, nella campagna inglese, con qualla sensazione di terriccio umido e prato che penetra tra le dita che fa sentire vivi e spavaldi. Quando le luci si spengono, inizia la magia, prima s’intravede una chioma rossa che sbuca dalla penombra avvolta da lampi in controluce, poi le sue lunghe gambe bianchissime che lascia sempre scoperte prima di rivelare la sua voce nitida, forte e meravigliosa tanto da farci credere di vivere un sogno, è come se per lei cantare sia la cosa più naturale del mondo. Un pò Kate Bush un pò Chrissie Hynde, eterea e punk, un vestitino a fiori e sopra un chiodo, l’arpa e la batteria, un sussurro e un urlo liberatorio, un attimo saltella leggiadra e subito dopo si lancia a terra a ginocchia nude, parte dolcemente e quando meno te lo aspetti arriva all’headbanging. Il mondo di Florence è fatto di contrasti e perdersi dentro è meraviglioso.

“Quello che faccio è quello che sono, non mi sono mai fermata a pensare: Cavoli che bella voce che ho! Ho sempre cantato nella mia vita sin da quando sono nata. Pensa che ho sempre avuto problemi di memoria a scuola, l’unico modo per me d’imparare un testo era trasformarlo in canzone”.

Nelle tue canzoni e nel tuo immaginario c’è una forte connessione con la natura e con gli animali, da dove nasce?

Credo sia l’Inghilterra stessa a trasmettere questo legame ai suoi abitanti, abbiamo una campagna meravigliosa e credo sia impossibile non subirne l’influenza in qualche modo. Amo i conigli, le volpi, i boschi la notte mi affascinano e mi terrorizzano allo stesso tempo, difficilmente se vedo un bell’albero resisto nell’arrampicarmici sopra. Ho sempre desiderato una casa sull’albero ma non l’ho mai avuta, probabilmente ero io stessa un albero in un'altra vita.

Il tuo album si chiama Lungs, (Polmoni n.d.g.), lo hai intitolato così perché la tua musica è come una boccata d’aria fresca da respirare a pieni polmoni?

Ahahah! Il concetto è questo: se spoglio la mia musica di tutto il superfluo resterebbero la batteria e la voce, la prima rappresenta il battito del cuore e la mia voce sono ovviamente i polmoni. Between Two Lungs è il pezzo che apre il disco e i miei live.

Hai vinto il premio della critica agli ultimi Brit Award mesi prima di aver pubblicato l’album, come ti sei sentita?

Sorpresa anche se cerco di non pensarci, l’attenzione della stampa mi fa paura, mi terrorizza a morte, io voglio solo fare la mia musica e non pensarci.

Le tue canzoni sono poetiche ed emozionanti, la tua voce è forte, le tue esibizioni live a tratti selvagge, nella tua musica dolcezza e forza diventano un tutt’uno, ti ci ritrovi?

Sì, sono una donna, sono vulnerabile ma anche forte, si pensa che le donne siano fragili e indifese ma non è così, siamo anche più forti degli uomini, io ce la metto tutta per raggiungere un obiettivo e mi batto per quello che faccio, scendere a compromessi non è nella mia indole e difficilmente cambio idea. La mia personalità ha molte sfaccettature, il mio disco è nato sul finire di una storia d’amore molto importante, c’è sofferenza ma anche forza. Questo album mi ha insegnato ad andare avanti, ho incanalato la mia rabbia e le mie amarezze in ogni singola canzone. Non ho mezze misure, sono dominata dalle mie emozioni, se sono contenta sono un vulcano in eruzione e se sono depressa non ho nemmeno la forza di parlare.

Qundi se i tuoi testi sono basati su esperienze personali pensando a Kiss with a Fist mi viene da chiederti se hai davvero dato fuoco al letto durante un litigio d’amore…

Ahahah! Diciamo che sono molto istintiva…

Tornando alla canzone, hai ricevuto più baci o più pugni nella tua vita?

Oh fuck... bacetti! Un sacco di bacetti.

Quando sei sul palco sei come posseduta dalla tua stessa musica, ascoltando le tue canzoni non ci si immagina una tale carica dal vivo che ti prende fino a farti fare stage diving sulle persone esaltate e allo stesso tempo sconcertate dalla tua energia live…

Mi sento libera sul palco! Felice di suonare la mia musica, credo che troppe persone nel quotidiano non si lasciano andare, sono vittime di troppe costrizioni, hanno timore di esprimere liberamente le proprie emozioni, io ne morirei. L’amore, la vita, la voglia di divertirsi, di fare qualcosa di stupido solo per farci sopra una risata, lasciarsi andare anche semplicemente ballando tra la folla ad un mio concerto, questo voglio da chi viene a vedermi, voglio respirare la libertà.

C’è anche un non so che di teatrale nei tuoi live ed anche nel modo in cui gesticoli mentre parli qui ora…

Dici? Beh diciamo grazie a Shakespeare.

Cosa t’ispira di più?

La competizione, il pormi delle domande, l’arte, una fotografia, camminare a piedi nudi nella rugiada mattutina, andare in bicicletta per le strade di Londra, la vita.

Com’è il tuo background musicale?

Da ragazzina ascoltavo musica punk, The Clash, The Ramones, poi sono arrivati il grunge e i Nirvana, poi ho scoperto il northern soul, i Talking Heads, Joy Division, e sono una grande fans dei mixtape.

Si dice che i party che organizzi a casa dei tuoi amici The Big Pink siano leggendari, cosa mi racconti a riguardo?

(Florence guarda in alto, poi per la prima volta arrossisce e ridacchia). Mi piace divertirmi non so che dire, anche se ultimamente non ne ho più il tempo e mi dispiace un sacco ora che mi ci fai pensare… Ho molti amici e sì mi piace fare casino con loro.

Mi piace il modo in cui mostri le tue gambe, è molto old style rock n roll!

Grazie! Ahahahah! Dimentico sempre d’indossare i miei pantaloni! Sai cosa mi è successo al concerto alla Brixton Academy?

No dimmi!

Indossavo un abito turchese molto leggero tenuto insieme solo da una spilla, durante il concerto si è aperta e mi sono ritrovate a cantare in canottiera e coulotte, ho chiuso il set lanciandomi sulla folla. Mi sono rivista e sembravo una pazza!

Sembra molto divertente, vedi che sei ancora punk sotto sotto…

Ahahah, ci sono molti modi di sentirsi punk e forse questo è il mio!

PATRICK WOLF


Era il 2004 quando Patrick Wolf uscì come dalle pagine di un racconto di Charles Dickens giocando alla ruota con il cerchio tra suoni celtici e pop avant-garde con un effetto strano e meraviglioso allo stesso tempo. Dopo essersi dichiarato libertino in Wind in the Wires, il suo masterpiece, firma con una major e nel 2007 pubblica The Magic Position il suo album più pop, glam e queer. Ma il mondo mainstream non lo capisce così se ne va incompreso e snobbato come un Macaulay Culkin in Mamma ho Perso l’Aereo ma travestito da Principe Caspian in Gareth Pugh. Senza perdersi d’animo Patrick apre un sito e si autoproduce finanziato dai suoi fans che diventano azionari di questo nuovo capitolo della sua storia: Battle, un concept diviso in due parti The Bachelor e The Conqueror. Un lavoro pieno d’idee e dalle possibilità infinite, in cui la voce di Tilda Swinton incontra i suoni techno di Alec Empire, in cui l’innocenza si scontra con la sessualita, la perversione, la malinconia e tutte le crude verità che riserva la vita. Che la battaglia abbia inizio.


Il tuo nuovo album è la prima parte di un progetto doppio, chiamato Battle. Ora hai pubblicato The Bachelor e l’anno prossimo uscirà The Conqueror a completarlo. Com'è nata questa idea e il progetto in generale?
E' iniziato tutto con un album unico ma con due tipi molto differenti di canzoni che non sapevo come unire. Prima ho iniziato a scrivere di un tempo della mia vita in cui ero molto solo e con un punto di vista pessimista riguardo all'amore. Poi però sono entrato in un periodo felice della mia vita, in cui ho iniziato una nuova relazione e ho sentito che dovevo esprimere delle emozioni positive. Quindi mi sono ritrovato con due gruppi di sensazioni e di tracce molto diverse, e in tutto circa una quarantina di canzoni da registrare. Il problema a quel punto è diventato di tipo finanziario: era praticamente impossibile produrre tutto allo stesso momento. Allora ho iniziato a fare la prima parte e in luglio registrerò la seconda. Il secondo album sarà una sorta di sequel, come la parte 1 e 2 di un film. E più avanti potrebbero anche uscire insieme come Battle.

Parlando di te, sembra che l'opinione della gente sia divisa in due: c'è chi ti vede come un artista importante e che ha segnato una svolta, altri che ti considerano poco più di una pop star. Che ne pensi di questa duplice opinione?
So che ci può essere un'opinione un po' negativa di me ma penso che sia dettata spesso dal fatto che ho iniziato ad avere pubblico, a fare tour, ad avere un buon seguito, ormai da sei anni. Chiunque ha successo nella vita deve pensare che c'è qualcuno sempre pronto a farti scendere. Sono rispettato da persone che io considero importanti in diversi settori. Comunque, non cambierei la mia vita con niente al mondo: è importante essere controversi e creare opinioni diverse alla gente e dar loro qualcosa a cui pensare.

In tutto l'album c'è una sensazione parecchio triste, un sentire molto drammatico. Sembra quasi che non ti importi del lato bello delle cose...
Personalmente e dal punto di vista dei testi, penso che sia così. Musicalmente è una sorta di combinazione tra ciò che può essere definito felice e le parti tristi. Credo che la mia musica possa dare fiducia in qualche modo a chi si sente depresso.

Hai parlato dei testi. Citi spesso situazioni politiche o anche l'argomento del suicidio. Sono basati su fatti personali?
Sì, assolutamente. Scrivo direttamente dalle esperienze che documento nella mia vita. C'è la parte politica in cui io do le mie opinione su quello che succede e sì, nominando i suicidi, c'è la vicenda di un amico che è scomparso un paio di anni fa. Tutto quello che c'è nell'album è la trascrizione di un'esperienza diretta.

Guardando indietro nella tua carriera hai cambiato radicalmente la tua immagine. Prima sembravi una sorta di Peter Pan, sognante e fiducioso, adesso hai un lato dark molto più presente. Sei d'accordo?
Assolutamente. Penso che le persone a un certo punto chiedano di andare oltre la fantasia o il mondo magico che ho disegnato. E' una cosa che ho fatto spesso negli ultimi tre album, mentre adesso mi sembrava giusto andare in un'altra direzione. Credo sia un'evoluzione naturale.

Questa tensione si nota anche all'interno dell'album. Come riesci a passare dalle parti elettroniche a quelle acustiche anche all'interno della stessa canzone? Ti viene naturale?
Sì, è un istinto naturale. A volte è molto diretto e spontaneo, altre volte penso alle mie radici e le esploro a fondo volontariamente. Non discrimino tra elettronica e acustica: è come guardare il mondo in bianco e nero. Lo vedo come un processo naturale, è la mia natura, non mi interessa il suono finale dell'album, deve essere coerente con me.

Anche nel tuo video Volture si nota molto questo cambiamento...
Beh sì, il video è una metafora visuale: usare il mondo del sadomaso per esprimere una sorta di tendenza autodistruttiva, o almeno confusa. In alcuni momenti una persona può essere potente ma allo stesso tempo sottomessa, non soltanto dal punto di vista sessuale, ma proprio come metafora della vita.

L'hai diretto tu, vero?
Sì, ho fatto tutto io. Volevo sperimentare un approccio self-directed. L'ho creato io, parlando di me stesso.

Sembra che tu abbia una forte connessione con il mondo fashion e del design. Sia per i video che per i live, i tuoi look sono sempre curati ed eccentrici...
Non sono così connesso con la moda, in realtà. Ci sono dei miei amici che io considero più artisti che designer, che realizzano pezzi magari non legati ad alcun trend. Mi piace indossare alcune loro creazioni, ma le vedo come visioni creative, non come capi di moda.

Senti, ultima domanda: com'eri da piccolo?
Ero un bambino molto energico! Mi piaceva girare per casa nudo, gridare, correre, urlare, rompere le cose. In effetti, già da allora mi piaceva essere al centro dell'attenzione, come su un palco. Poi, avevo un ottimo rapporto con mia sorella: avevamo il nostro mondo parallelo, il nostro linguaggio. Poi, quando sono diventato un teenager è stato più duro mantenere questo mondo e mi sono dovuto scontrare con la realtà.

Marco Cresci e Matteo Zampollo

KASABIAN


Il West Ryder Paper Asylum è un ospedale psichiatrico edificato a Wakefield nel 1800, il suo nome è stato preso in prestito dai Kasabian come titolo del loro terzo album. Un lavoro temerario che si prefissa di scavallare i limiti della psichedelia in un vortice di emozioni quali ansia, stupore, gioia, malinconia, ira, voluttuosità, smarrimento e genio, tutti insieme a scontrasri come racchiusi nel cervello del più normale dei matti. La band di Leicester è cresciuta sotto le ali protettive dei fratelli Gallagher, che è risaputo, odiano tutti e non si sa come i Kasabian se li sono ingraziati, sarà che, per dirla alla Liam, il loro rock è “cazzutissimo”. Genio e pazzia vanno da sempre di pari passo, per farsi aiutare in questa impresa Tom Meighan e Sergio Pizzorno, voce e chitarra non che menti del gruppo, lasciano contaminare il loro rock sudicio, che ha partorito successi come Club Foot e Shoot The Runner, dalle visoni del produttore Dan the Automator. Dan infila beat e sample a profusione traccia dopo traccia, stordendo e affascinando chiunque si addentrerà tra le stanze di questo manicomio i cui pazienti ideali si chiamerebbero Primal Scream, Ennio Morricone, Rolling Stones, Tarantino, influenze evidenti di questo lavoro visionario e ambizioso. Tom ci racconta com’è nata la follia.

Un album all’insegna di genio e sregolatezza che ruota intorno ad un manicomio, un idea da cui siete partiti o un naturale sviluppo sul tema?

La psichedelia è stato il punto di partenza, poi un giorno abbiamo visto un documentario in tv su questo manicomio dell’800 nei pressi di Leeds che si chiama West Ryder Paper Asylum, un titolo che suona psichedelico da solo, forse avevamo fumato troppo ma ci siamo detti: è perfetto.

Sembra abbiate “giocato” di più questa volta, è così?

Abbiamo giocato un sacco! Il nostro suono si è contaminato man mano, già nel nostro secondo album c’erano più elementi dance rispetto al primo e in questo abbiamo cercato di unire il rock e la dance con la psichedelia, è uscito un album disordinato e avventuroso. Il buon rock n’roll deve saper far ballare.

Quale credi sia il pregio di questo lavoro?

E’ un disco saturo, è impossibile recepirlo la prima volta che lo si ascolta, ogni volta da emozioni diverse e nuove, per questo siamo stati attratti dal concetto di “follia”. Credo sia un album che spinge chi lo ascolta a fare qualcosa, è pieno d’informazioni, di suoni che fan girare la testa, di alti e bassi che provocano un euforico rush.

Com’è caduta la scelta su Dan the Automator?

Siamo fan del suo lavoro con Unkle, Dj Shadows, Gorillaz, volevamo spingere il nostro suono verso direzioni nuove e lui con i suoi sample ci ha aiutato molto, prima del suo intervento le nostre canzoni suonavano un pò troppo simili al nostro secondo album, erano molto organiche e rock n’roll. Dan ci ha indicato la via giusta senza cambiare la nostra identità inserendo beat e sonorità vicine al mondo hip hop, ma inserite in un contesto rock.

Cosa hai imparato da lui?

A guardare oltre la scatola, a non seguire solo il primo istinto ma tornare indietro a guardare cosa si è fatto, pensare alle nostre canzoni in modo diverso, non c’è mai solo una via d’uscita. Ad esempio Where Did All the Love Go? Era un pezzo heavy rock n’ roll, lo abbiamo decostruito e ora è un pezzo groove, pop e sensuale.

Come nasce un vostro pezzo?

Da una chitarra acustica o dal piano, in modo molto semplice, ci sediamo e suoniamo, discutiamo, ognuno porta le sue idee. Alcune canzoni ci mettono settimane prima di vedere la luce altre come ad esempio West Ryder Silver Bullet sono nate in un paio di giorni.

A proposito di West Ryder Silver Bullet come avete convinto l’attrice Rosario Dawson a cantare per voi?

Eheheh… Cercavamo una donna da far cantare nel pezzo e Sergio è amico di Rosario così glielo abbiamo semplicemente chiesto e lei ha detto di sì! Avevamo in mente un duetto romantico e sexy alla Mickey and Mallory di Natural Born Killers. Rosario si è innamorata subito del pezzo ed è stata fantastica. Le abbiamo anche chiesto di chiedere a Tarantino se gli va di girare un nostro live ma stiamo ancora aspettando una risposta.

Hai dichiarato “In Inghilterra l’era del rock n’roll è finita” cosa intendi?

Ahahah! L’ho detto? Sì, sì è vero! Nel senso che l’essenza del rock n’roll è morta grazia alla discografia, oggi basta che ti colleghi in internet e riesci persino a vedere cosa succede nel backstage, tutto è troppo orientato verso i media, non c’è più mistero, enigma, qualsiasi cosa fai viene ripresa e messa in rete, una volta c’era un sano alone di mistero che oggi è andato perduto.

Il vosto primo album è del 2004, vedi un peggioramento nella scena inglese indie da allora?

Un drammatico peggioramento! “Tutto e subito” è la politica del music businness inglese, uno schifo.

Credi si stia perdendo l’abitudine di ascoltare un album dall’inizio alla fine?

E’ un valore che sta scomparendo. Oramai tutto si basa su di canzoni che compri a 79p su internet. Mi dispiace pensare che la gente non avrà la possibilità di ascoltare il nostro disco per intero perché è davvero bello e sarebbe un vero peccato. New generation: wake up!

8 ottobre 2009

LA ROUX


Si sentiva nell’aria e nella terra che la rivoluzione stava per cominciare, le ragazze hanno la musica in pugno e la vittoria in tasca su tutti i fronti musicali, Lady Gaga, Katy Perry, Ladyhawke, Little Boots, Florence and the Machine, Lissy Trullie, l’invasione delle cantanti vent’enni è cominciata e tocca a La Roux sferrare il colpo di grazia. Ciuffo rosso fuoco alla Tin Tin, una faccia androgina dallo sguardo posh capace di mettere in soggezione, un look che mixa tie dyed denym, camice stampa Versace, make up fluo e una passione per i camei che tiene al collo e al dito, Ellie Jackson è La Roux la nuova stella dell’electropop. Lanciata dalla Kitsunè con il singolo Quicksand, la rossa di Brixton raggiunge a sorpresa il secondo posto delle chart Uk con In It For The Kill, la sua musica è istantanea ma mai banale e nonostante peschi ancora una volta dai suoni anni ’80, risulta libera da ogni vincolo, senza pretese e intelligente. In un paio di mesi è diventata un’icona di stile è impossibile non chiedersi Who’s That Girl? la prima volta che la si vede con quel look maschile che ricorda Tilda Swinton e quell’attitudine di chi sa il fatto suo. Elly Jackson incontra Ban Langmaid discepolo di Rollo dei Faithless a diciassette anni ad un party, e qualche anno dopo insieme formano i La Roux. Lui compone e produce in studio ma odia le luci della ribalta e sceglie l’anonimato mandando in scena solo Ellie che subito diventa La Roux come unica identità. Raggiungerla a Londra è un’impresa impossibile, la stampa le sta addosso pronta a divorarsi ogni sua singola mossa, così per incontrarla voliamo a Berlino a Kreuzberg, in un giorno di fine maggio in cui sole, grandine, pioggia e vento si alternano in un turbinio delirante e senza sosta, ma siamo pronti a sfidare tutte le intemperie pur di parlare con La Roux, a costo di sciuparle il ciuffo.

Ciao Ellie, o La Roux? Chiariamo questo fatto…

La Roux è un duo, ci si confonde non è vero? Ma questo mi diverte, siamo io e Ben. In studio siamo un duo ma in ogni altro posto sono solo io, è come funziona per Goldfrapp anche se siamo molto diverse! (scoppia a ridere). Io sono La Roux ovviamente perché sono quella con i capelli rossi, ma siamo comunque La Roux entrambi…

Un altro fraintendimento che ti riguarda è che per via del tuo nome d’arte e perché sei stata lanciata dalla Kitsunè, in molti pensano che tu sia francese…

E ancora più divertente è il fatto che molte persone pensano che io sia di Glascow solo perché ho i capelli rossi! E se sei rossa devi essere scozzese per forza no?!

Il tuo album omonimo suona fresco, spontaneo e innovativo, è stato difficile fare musica attingendo dagli anni ’80 senza cadere nei soliti clichè?

Sì. Il fatto è che mi sento come nata nell’epoca sbagliata, mi sarebbe piaciuto moltissimo poter vivere gli anni ’80 ma sono nata nel 1988, non sto cercando di copiare nessuno, ne tanto meno di apparire cool, sono me stessa e la mia musica è spontanea quanto lo sono io. Se qualcuno trova la mia musica banale o pacchiana è un problema loro non mio. Io amo i Chromeo ma loro sono come un gioco, scherzano con gli anni ’80, li prendono in giro eccentuandone le caratteristiche, la mia musica invece si rifà agli anni ’80 ma con un tocco attuale, moderno.

Parlami del tuo immaginario, è molto forte e personale, è qualcosa che ti appartiene o c’è una ricerca alle spalle?

È naturale e strano allo stesso tempo, ho parlato molto di questo anche con Kinga Burza che ha diretto il video di In It fot the Kill e Quicksand e del fatto che anche se non volevamo sembrare anni ’80 è stato impossibile non esserlo. Anche per il video di Bulletproof è successo lo stesso, avevo giurato a me stessa: non voglio essere ‘80! Ma alla fine è impossibile liberarsene anche se è una reinterpretazione moderna sono lo stesso anni ’80, non c’è altro immaginario che si sposa così bene con la mia musica.

La melodia ha un ruolo fondamentale nelle tue canzoni, credi sia il segreto per raggiungere la perfezione?

Credo sia il segreto per una buona canzone, ma per raggiungere la perfezione ci vuole anche un buon testo, senza non puoi ottenere una canzone segreta. Ho detto segreta invece di perfetta? Ahahah! Ok è vero ho scritto una canzone perfetta ma è un segreto è la canzone più bella mai stata scritta ma non dirlo a nessuno! (scoppiamo a ridere). Nel pop le melodie mi mettono allegria.

Le melodie molto allegre sono spesso in contrasto con i testi che parlano di storie d’amore finite male, sono personali?

La maggior parte dei miei testi li ho scritti piangendo anche se suonano gioiosi, sono totalmente personali, sono incisi nel mio cuore.

Nell’album c’è un pezzo molto bello si chiama Tigerlily, è impossibile non cantarla e verso la fine c’è una voce maschile paurosa in stile Thriller, di chi è?

Non ci crederai ma è di mio padre! Non posso negarlo è totalmente copiata da Thriller, lo abbiamo fatto per gioco ma poi l’idea di mettere un pezzo così sfacciato mi divertiva. Michael Jackson è il mio eroe, non com’è adesso! Sarebbe pietoso.

Andrai a vederlo in uno dei suoi cinquanta concerti londinesi?

No, non avrebbe senso, primo perché non voglio dargli i miei soldi e secondo perché non credo che sarà veramente lui ad esibirsi, rovinerei in un istante uno dei miei più grandi sogni. Lo avrei visto negli anni ’80 quando faceva buona musica non oggi, ripeto non oggi!

Sei diventata immediatamente una faschion Icon, (Ellie eccitata esclama Yes! Facendo il tipico gesto di chi ce l’ha fatta), grazie al tuo ciuffo, jeans scoloriti, camice stile Versace e l’inseparabile medaglione cameo…

Sì ho candeggiato decine e decine di jeans ma sto cercando di usarli un pò meno anche se mi piacciono sempre solo che quando una cosa diventa di moda non riesco più a metterla! Mentre adoro le camice in stile cheap Versace.

E la passione per i Cameo da dove nasce?

Non lo so esattamente, ne sono affascinata, come adoro gli stemmi araldici, compro sempre anelli e ciondoli che li raffigurano nei mercatini e soprattuto nelle stazioni dei treni, (mi mostra un anello con un cameo e un altro con uno stemma reale n.d.g.), non mi piace spendere molti soldi in gioielli. A parte questo grosso ciondolo a cameo che è di Sylvie Markovina, una designer di gioielli australiana che amo.

Dovresti farti fare un ciondolo con la tua silhouette, sarebbe perfetto!

L’ho fatto! L’abbiamo stampata sulle magliette del merchandise.

Immagino che i kids londinesi stiano cercando gia da tempo di copiare la tua pettinature…
Sì lo fanno… (Fa il broncio)

E questo ti dispiace?

No è molto divertente il fatto è che lo fanno male…

Come una brutta copia?

Non è una questione di bruttezza è che è veramente difficile ottenere questo effetto anche una volta che hai imparato come farlo, ci vuole molto tempo, e soprattutto devi avere i capelli tagliati per essere pettinati in questo modo non può farlo chiunque. Io adesso ci metto cinque minuti a farmeli, ma sono allenata.

Adesso che ti ho qui di fronte a me posso dire che sei dolcissima, gentile e simpatica, ma ammetto che in foto e nei video hai uno sguardo che mette in soggezzione, lo sai?

Davvero? Interessante, ma vedi io non so posare davanti all’obiettivo ridendo e molte spesso assumo uno sguardo arrabbiato, ma non sono arrabbiata, penso che il sorriso non centri nulla con la mia immagine o con la mia musica, guardami (posa con un sorriso a pieni denti) non sembrerei Joker? Ahahah!

Hai appena concluso il tuo primo tour come headliner com’è andato?

Bene ma è stato molto faticoso, le date erano una dietro all’altra e trattandosi di un NME tour suonavamo sempre in piccoli club sporchi, cool ma molto sporchi. Non c’era mai nemmeno il tempo di avere un pasto decente, perché ci trovavamo in posti come Preston in cui non sanno nemmeno cos’è un ristorante giapponese. Non ho nulla contro Preston ma sono posti in cui non c’è nulla se non Mc Donlad o Tesco, così mangiare diventa difficile e alla fine del tour ero ammalata e stanca.

Tu, Ladyhawke e Little Boots, possiamo parlare di una nuova scena femminile?

Forse. Se provenissimo dallo stesso posto sicuramente potremmo parlare di scena ma io sono di Brixton, Little Boots di Blackpool e Ladyhawke neozelandese, quindi parlerei più di una coincidenza anche se riconosco che abbiamo spunti comuni, forse più con Little Boots perché Ladyhawke è molto Fleetwood Mac, ma sono due artiste che mi rispetto molto.

Quando potremo vederti dal vivo i Italia?
Tra poco partirò per un lungo tour europeo che toccherà l’Italia a marzo, per la precisione Milano, non vedo l’ora!

AIRYS



Il giorno che Esco, il primo video di Airys, ha fatto la sua comparsa on line la comunità notturna milanese, e qui mi ci metto in mezzo, ha messo in atto una vera e propria rivolta su Facebook e tra insulti, commenti a sproposito e poche critiche costruttive il nuovo progetto di Syria oggi Airys è stato demolito nell’arco della durata della canzone stessa, o forse meno. L’intento di Airys e dei suoi alleati, Giulio Calvino e Sergio Maggioni degli Hot Gossip, è stato quello di provare a fare un disco di musica electro pop, che strizza gli occhi ai grandi del settore. Le canzoni di Airys attingono da Kylie, Goldfrapp, Madonna, Yelle unendo ritmi disco alla tradizione cantautorale italiana di Battisti e allo stile electro della prima Bertè. Una novità in Italia diciamolo. La cosa che stride è la connotazione del progetto strettamente legata ad un ambiente notturno milanese, che ha fatto diventare il tutto quasi una propaganda a favore di certe serate e locali in cui regna la voglia di apparire, in foto, in video, di persona. Il video di Esco è molto bello e la tecnica stop motion in Italia in pochi l’avevano usata, un applauso al regista. Vivo Amo Esco è il titolo di questo e.p. ben prodotto e costruito ma con un difetto che non sta nella musica ma nel nome, perché Airys? girarsi il nome al contrario ok è un gioco, ma si può giocare anche restando se stessi, si è più credibili, soprattutto con una carriera decennale alle spalle. Ma anche mascherarsi fa parte del popolo della notte, no?

Come sei diventata Airys?

Da quando vivo a Milano, città maledetta in senso buono, ho imparato a diventare più curiosa. A Roma avevo un’altra attitudine e frequentazioni. Da quando ho cominciato ad andare ad Ibiza a fare la vacanziera mi si è aperto un mondo che mi ha fatto venire voglia di frequentare un po’ di realtà danzerecce. Dall’ultimo album che ho fatto come Syria insieme ai La Crus mi si è aperto un mondo, mi sono lasciata andare verso nuove esperienze. Poi nei locali ho conosciuto gli Hot Gossip e mi sono ritrovata a fare dei dj set insieme a Giulio e Sergio e ci siamo subito trovati. All’inizio mi han proposto di fare un solo pezzo, un’esperimento alla Roisin Murphy all’italiana con un’attitudine cantautorale più nostra. Alla fine ci siam divertiti così tanto che è diventato un progetto concreto e dal prestare la voce siamo diventati un tutt’uno, con la voglia di divertirsi come comun denominatore.

Perché ti sei girata il nome al contrario e non sei rimasta Sirya?

Perché non mi andava di tenere il nome Sirya perché vorrei continuare a fare quallo che ho fatto come cantante prima d’ora, mi piaceva l’idea di avere una doppia personalità. Ecco credo che questa sia un problema strettamente legato all’Italia, all’estero quanti sposano cause diverse e artisti che fanno folk si mettono a fare electro sotto uno pseudonimo? Allora mi butto anche io! Non devo dimostrare nulla a nessuno e non ho più paura, non credo ci siano altre mie colleghe dotate di questo coraggio.

Hai un passato decennale in cui hai fatto un sacco d’esperienze diverse, è stato difficile sopravvivere?

Sì! Ma ti dico la verità, oggi mi sono rotta i coglioni di quella grande esposizione che ho avuto in passato, mi è servita e mi sono aiutata passando dal neomelodico, al radiofonico, lavorando con Jovanotti, Tiziano Ferro, Giorgia e tanti altri. Oggi esistono X-Factor e Amici e se voglio sopravvivere al sistema preferisco fare le mie cose anche se andranno a scontarsi con realtà che sono diverse dalla mia abituale. Oggi mi godo le cose in un altro modo e sono felice, tanto.

Oltre agli Hot Gossip hai coinvolto un po’ tutta la italo disco del momento in questo progetto…

L’italo disco del nord! Dariella, Amari, Peluche, Cecile, Titan, NT89, son tutti dj che mi è capitato di conoscere in questi anni in cui mi sono confrontata e siamo diventati un gruppo, per questo ho fatto remixare loro le mie canzoni.

Il video lo hanno girato i ragazzi di Died Last Night, è molto bello e innovativo per Italia…

I ragazzi di Died Last Night hanno scattato dodicimila foto per realizzarlo, il video di Esco per me è un documentario sul mio mondo notturno, non so come verrà percepito ma io sono contenta se il video passerà di notte, non mi interessa la heavy rotation.

Il primo riferimento che ho sentito ascoltando Esco a livello vocale è Loredana Bertè, cosa ne pensi?

Mi fa molto piacere, in effetti è un ottimo riferimento, perché è un po’ scanzonata com’è lei, io nel 96 ho vinto Sanremo giovani con un pezzo della Bertè che è Sei Bellissima quindi vedi, tutto torna, Loredana è nel mio cuore.

Io Ho Te invece è una cover della Rettore…

Amo quel pezzo, è cattivo e aggressivo, è la mia preferita del disco.

Kylie, Roisin Murphy, Madonna, Goldfrapp, Uffie, Yelle, c’è un po’ tutta la storia dell’electropop nell’ep dagli ottanta ad oggi.

Sì ma in versione “De Noantri” ahahah! Airys è un progetto totalmente pop, noi lo chiamiamo power pop-electro club, che non vuol dire tutto e nulla. Però ammettiamolo, in Italia questa cosa ancora non è uscita, siamo stati i primi senza essere estremi, abbiamo assorbito l’influenza estera e l’abbiamo interpretata. Io credo che dopo il primo concerto dei Justice a Milano è cambiato tutto, è esplosa una scena e si è ramificata, la musica è cambiata e c’è voglia di accogliere tante cose fine ad arrivare a raggiungere il proprio stile. In futuro.

Come pensi verrà recepita Airys?

Questo per me è un esperimento, per molti rimango Sirya, chi mi conosce sa che da me ci si possono aspettare certe cose soprattutto dopo il disco Un’altra Me, e molti puntano il dito soprattutto su Facebook dove mi dicono che non posso permettermi di fare questo perché tanto sono sempre quel che sono. Ma mi diverte, è un confronto continuo e non mi pesa, la verità è che non voglio criticare nessuno, faccio le cose in nome di un po’ di felicità. L’importante è farle dignitosamente.

Marco Cresci

THE DO


Prendete un compositore di colonne sonore francese, intimista e tenebroso e fatelo incontrare con una finlandese sexy e rockettara, due personalità e due mondi così lontani e diversi quando si incontrano generano attrito o accade la magia, è questo il caso dei The DO. Dan Levy e Olivia Bouyssou Merilathi, le cui iniziali formano il nome della band oltre che quello di una nota musicale, nascono artisticamente a Parigi, lei arriva dalla scena rock finlandese, lui crea colonne sonore, A Mouthful è il titolo del loro primo album in cui la malizia di Olivia che si muove come una Lolita, si mescolano all’esperienza di Dan, l’uomo maturo, creando un impasto indie folk rock sensuale, scazzato e accattivante. La voce di Olivia si muove sui binari del polistrumentista Dan come un rollercoaster in un parcogiochi, ci sono cadute vertiginose, loop, svolte inaspettate, ma anche salite in cui tirare il fiato, prima di precipitare di nuovo in un turbine di divertimento.

Ciao Olivia, mi racconti come hai incontrato Dan?

Ci siamo incontrati nel 2004 a Parigi, stavamo lavorando entrambi ad una colonna sonora ma separatamentre, ad un certo punto ci siamo ritrovati a dover comporre delle canzoni inisieme e ci siamo trovati così bene che abbiamo formato la band.

Quindi anche tu come Dan componi colonne sonore?

No è stata la mia prima ed unica volta, Dan è un veterano compone per la tv, per il teatro, per propiezioni d’arte contemporanea, io invece ho diverse band alle spalle con cui ho suonato, ho vissuto quell’esperienza più come un gioco.

Quindi tu sei l’anima punk dei The Do!

Ahahah! No dai! In effetti mi son trovata a suonare strumenti che non avevo mai suonato prima, Dan è un polistrumentista bravissimo quindi mi ha insegnato ha suonare il basso e la chitarra, in questo sul palco sono sicuramente punk, non avevo mai cantato e suonato contemporaneamente prima.

Insieme siete un curioso miscuglio di razze e personalità, avete gusti simili o vi scontrate?

Siamo diversi perché come hai detto tu proveniamo da diverse culture, Dan è nato e cresciuto in Francia ma sua mamma è inglese e suo papà ha origini asiatiche, io ho la mamma finlandese e il papà francese quindi abbiamo questo mix di culture. Dan mi ha fatto scoprire il lato strumentale della musica, esplorando il jazz e la musica classica, lui è un ragazzo da studio mentre io gli ho mostrato la melodia, il pop, e come ci si esibisce su un palcoscenico.

Mi piace molto il modo in cui canti, la tua voce sembra quasi uno strumento e mi piace la tua attitudine scazzata, a volte sembra che sei quasi annoiata, come una ragazza viziata che deve cantare per forza, ti ci ritrovi in questo?

Ho my God! Ahahah! Il nostro intento era quello di fare qualcosa di diverso nella musica e nel cantato, per questo gioco un sacco con la mia voce nel disco. Non è stato così facile, anche perché nessuno di noi due sapeva come comporre un album, non lo avevamo mai fatto prima quindi abbiamo iniziato scrivendo canzoni più che un album. Abbiamo cominciato per divertimento, scrivendo canzoni per noi, le prime canzoni che abbiamo creato sono state Playground Hustle e Queen Dot Kong che sono i duei episodi più sperimentali del disco. Ci siamo divertiti un sacco, lo studio è la nostra casa.

So che avete suonato degli oggetti comuni per ricreare dei suoni, mi fai qualche sempio?

E’ uno dei nostri passatempi preferiti ricavare suoni da oggetti che non sono strumenti, mi ricordo quando abbiamo spaccato un vaso di fiori interrati sul paviento, un suono davvero curioso, o quando siamo usciti per strada in cerca di un martello pneumatico!

La prima frase che pronunci in Playground Hustle traccia che apre l’album è “We Are Not Crazy”, è una dichiarazione?

Perché lo siamo! No? Abbiamo messo quella canzone all’inizio dell’album perché è una delle meno convenzionali, ci divertiva l’idea di far trovare qualcosa d’inaspettato all’inizio del disco, iniziamo una rivoluzione! E’ un atto di ribellione perché prima di allora avevamo lavorato insieme ma solo sotto la guida di un regista che ci chiedeva specificatamente cosa fare, in studio ci siamo trovati liberi e questa euforia si è trasformata in tante canzoni. La nostra etichetta non voleva Playground Hustle come prima tarccia, insinuava che la gente sarebbe scappata ascoltandola, così abbiamo lottato per metterla proprio in apertura. Libertà!

Io credo che al massimo incuiriosisca chi l’ascolta nel voler sapere cosa succede dopo…

Esatto! Grazie, per noi è la canzone che rappresenta al meglio la nostra musica.

I tuoi testi sembrano dei racconti, il giusto mix tra fantasia e realtà, è così?

Sì, non mi piace scirvere i testi come un diario, ma mi piace raccontare storie partendo da spunti personali, come se dovessi raccontarle ai miei figli anche se ancora non ne ho, ma senza essere infantile, mi piace usare l’immaginazione e farcirla di simboli. I racconti che mia mamma mi raccontava da piccola in finlandese mi hanno influenzato molto, racconti molto forti legati alla nostra tradizione.

Toglimi una curiosità, nelle vostre foto Dan sta sempre giocando con i suoi vestiti, si allaccia i pantaloni, si abbottona la camicia, come se fosse stato appena colto sul fatto…

Eheheh, beccato! Dal mio punto di vista sono foto molto spontanee, la maggior parte sono state scattate in Florida durante una vacanza, poi lasciamo spazio all’immaginazione di chi le guarda…

Di cosa non puoi fare a meno in questo momento?

Dei leggins! Non riesco a liberarmene, non riesco più ad infilarmi in un paio di pantaloni.

Si parla di vestiti, hai un designer favorito?

Credo che i designer giapponesi abbiano l’immaginazione più fervida, creano vere opere che sono per me la continuazione delle storie che amo leggere o scrivere. Nei loro vestiti c’è la storia, non si prendono troppo sul serio e amano osare con i colori come fa Tsumory Chisato uno dei miei preferiti.

So che hai registrato un paio di canzoni con Luke Pritchard dei The Kooks, che fine faranno?

Ma questo era un segreto! Sai che non lo so, probabilemnte verranno usate come b-side dai Kooks, mi piace molto la sua voce e a lui la mia, ci siamo conosciuti ad un festival in Inghilterra e alcuni giorni dopo abbiamo registrato un paio di cover degli anni ’60. Spero di sentirle presto.

Il disco che non riesci più a togliere dal tuo lettore?

Sono due, Alcohol di Goran Brecovic, un musicista fantastico e The Sicilian del tenore Roberto Alagna, ho una passione innata per le canzoni napoletane.

Marco Cresci

SCOTT MATTHEW


Cantautore dall’anima fragile e dalla voce flebile, Scott Matthews sì è fatto notare con il suo omonimo debutto e con la sua interpretazione canora nel film culto Shortbus. Corteggiato dal mondo della moda, icona della scena gay underground e songwriter di talento, l’australiano fuggito a New York pubblica l’atteso secondo album There is an Ocean that Divides… ed è di nuovo magia, poesia, malinconia, sussurri su chitarre pizzicate che avvolgono testi intimi, sali e scendi emotivi e un romanticismo che oggi si fatica trovare nel cantautorato. Barba lunghissima e ciuffo davanti agli occhi si capisce subito che Scottie, come ama farsi chiamare, è timido, introverso, solitario, ma dategli un bicchiere di vino e una platea di amici e si trasforma in un cabarettista, sagace, pungente e affascinante. Impossibile mascherare i suoi sentimenti e come titola il nuovo album, l’oceano e la lontananza che lo divide dai suoi desideri ed aspirazioni ci arrivano con tutta la sua forza culmimando in questo atto d’amore per la musica.

Quali sono i temi che dominano il nuovo album?

I soliti! Ahahah! Miseria, brama, assenza d’amore, desiderio, sono temi sempre presenti nelle mie canzoni, ma credo d’aver aquisito in questi ultimi anni più confidenza con me stesso e l’aver ricevuto molte gratifiche mi ha aiutato. Per questo nonostante fossi sempre impegnato ho trovato il tempo di fare l’album e poi avevo praticamente tutte le canzoni pronte, le ho scritte durante il tour.

Quindi è un album nato on the road?

Sì perché sono stato in giro per due anni, appena avevo tempo scrivevo nel van o in una camera d’hotel poi quando sono tornato a New York ho raccolto le idee e sistemato il tutto.

Ti preoccupi del giudizio altrui mentre crei un album?

Sì e per questo cerco di non farlo, la paura fermerebbe il processo creativo, ma ogni volta che il disco è finito e viene mandato in stampa ho una specie di crisi di nervi perché divento consapevole del fatto che le persone lo ascolteranno giudicandomi. E’ spaventoso.

I tuoi testi sembrano poesie, hai studiato o è il tuo modo spontaneo di scrivere?

Non ho mai preso lezioni ne in musica ne in poesia, sono una specie di dumb ass! Il mio modo di scrivere è sempre stato questo, forse in questo album ho deciso di sperimentare un pochino ad esempio ci sono due canzoni Dog e German in cui ho cercato di scrivere da un'altra prospettiva, senza raccontare in prima persona ma facendo parlare un personaggio.

Credo sia dai tempi di When the pown… di Fiona Apple, che non ci troviamo di fronte ad un titolo lungo quanto quello del tuo nuovo album, There is an ocean that divides and with my longing I can charge it with a voltage that's so violent to cross it could mean death” …

E’ vero non ci avevo pensato, ma sai cosa mi ha spinto a farlo? Tutte le persone che mi han detto di non farlo perché suonava pretenzioso, autoindulgente o stupido. Per me è un bel pezzo di prosa che doveva assolutamente finire in una canzone che poi è divenatta la title track, trovo sia perfetto per esser sussurrato come titolo dell’album. Inoltre credo che esprima in una frase tutto quello che vorrei dire ed è intenzionalmente romantico e drammatico.

Leonard Cohen ha detto: “Potrei passare un anno intero a scrivere lo stesso testo in cerca della sua perfezione”, tu come la pensi?

Lui è un perfezionista, io no, per me sarebbe un enorme perdita di tempo lavorare in quel modo! Per me è qualcosa di molto spontenao, qualche volta torno in dietro e cambio qualcosa in fase di registrazione ma non mi piace tornare più volte su quel che ho fatto, prefersico pensare al passo successivo. Ammiro il modo di lavorare di Cohen perché vuol dire che è estremamente cosciente in quello che fa, io sono meno attento al mio songwriting, accade e basta.

C’è un tema ricorrente nelle tue canzoni?

Stranamente in tutti i miei due album parlo molto di Dio e non sono assolutamente religioso…

Quindi perché ti sei trovato a parlarne?

Perché Dio è un simbolo universale con il quale chiunque può relazionarsi, almeno credo, sono cresciuto in un ambiente religioso ma non andavo in chiesa e non provo ne paura, ne colpe, ne vergogna se penso alla religione, ma credo che inconsciamente Dio faccia parte della mia vita. Mi sono trovato molo a pensare ai valori medi che la società t’impone rispetto a quelli che sono i miei valori. Poi ci sono l’amore, la perdita, la solitudine che è sempre presente nei miei testi, anche quando canto d’amore c’è sempre una spruzzata di malinconia.

Ti è mai capitato di fermarti e pensare “Cosa sarebbe successo se non avessi fatto quel che ho fatto”?

Sempre, io sono molto insicuro, mi sento vulnerabile soprattutto quando sono sul palco, ora sono più a mio agio ma all’inzio guardavo il pubblico e pensavo: Ma chi me lo ha fatto fare? Odio espormi perché è faticoso ma sto imparando a sentirmi parte del palco e non solo un suo complemento.

Come passi il tuo tempo libero?

Cazzeggiando con gli amici e bevendo troppo! Sono cresciuto in campagna quindi quando posso scappo da New York per andare verso la natura, è una sorta di richiamo istintivo.

A proposito di New York, anche tu credi sia cambiata in peggio?

Oh si, drasticamente! Ha perso quella spontanea creatività che l’ha resa famosa, non c’è più eccitazione, fermento, ma c’è più sicurezza e tutto costa tantissimo, uno scambio vantaggioso no?

Hai un angolo prerito della città?

Waterfront sull’East River a Brooklyn, c’è un parchetto dimenticato che affaccia sulla spiaggia e d’estate io e i miei amici vi passiamo tutto il tempo, in realtà la chiamiamo spiaggia ma è acqua tossica e ci aspettiamo sempre che prenda vita da un momento all’altro. Ahahah!

Le tue canzoni hanno un lato tenero e fragile, ma tu come sei?

Fragile, tenero e con uno spiccato senso comico, amo ridere e rido tantissimo, le persone buffe e divertenti mi attraggono e mi aiutano ad allontanarmi dalla solitudine che ho sempre presente in me. C’è un grosso clown nascosto in me.

Cosa ti manca di quando eri bambino?

Che non avevo responsabilità e non dovevo pagare le tasse, odio i doveri di un adulto anche se non ho avuto un’infanzia idilliaca quindi ci sono anche molte cose che preferisco dimenticare.

Avevi un giocattolo preferito?

Non avevo giocattoli, avevo animali, vivevo in un fattoria, giocavo con le galline, con i conigli e con le mucche. I cespugli australiani erano il mio campo giochi…

Cosa ti spaventa?

Faremmo prima a parlare di quello che non mi spaventa. Mi spaventa l’idea di non riuscire a coltivare una relazione, non riconoscere l’onestà delle persone, perdere l’abilità di avere speranza e diventare cinico, non potrei mai sopportare l’idea di diventare cinico, cerco sempre di essere ottimista.

Ti senti mai colpevole per un tuo vizio?

Le sigarette! Le amo e le odio non posso stare senza e poi la televisione, la amo.

Cosa ti piace guardare?

Tutto quello che è spazzatura, il canale dei gossip, i reality, e un sacco di serie amo Big Love.

Hai mai pensato di trasferirti?

Da New York sì ma non credo che potrei mai lasciare l’America perché ho costruito un collettivo che è anche la mia famiglia con cui lavoro benissimo e al quale non potrei rinunciare.

Riesci ad immaginarti senza barba?

No! Morirò con questa barba, seriamente, sono dieci anni che ce l’ho e credo che sarebbe un orrendo shock per me guardarmi allo specchio sbarbato, come se al mio posto vedessi Michael Jackson.
Ahahah! Correrei a comperarmi una barba finta in attesa che la mia ricresca.

Scott Matthew
17 luglio, Ferarra sotto le stelle, ingresso gratuito.

PETER BJORN & JHON


Chi non è stato contagiato dal fischiettio di Young Folks alzi la mano! Canzone simbolo dell’estate 2006 sdoganò definitivamente il pop folk strampalto e creativo del trio svedese Peter, Bjorn & John, prima di allora gruppo di nicchia idolatrato nel settore e fonte d’ispirazione per diversi artisti, prime su tutte le Au Revoire Simone. Ciò che si fa apprezzare maggiormente di questo trio è l’originale spontaneità che convive in ogni album compreso Living Thing, il loro quinto, in cui devono dimostrare di non essere il classico fenomeno da una hit. Il nuovo album va oltre il pop gioioso che li ha resi celebri, è un’avventura sonica colma di chitarre darkeggianti, synth, drumbeat, semplici melodie vocali, cori di bambini e deliziosi handclapping. Un disco da scoltare in cuffia, per coglierne ogni sottile intuizione, meglio di notte su un’altalena del parcogiochi di quartiere, illuminati solo dal chiaro di luna.

Peter, ogni vostro disco si differenzia dal precedente, Living Thing è il quinto, non dev’essere facile riuscire a creare qualcosa di nuovo ogni volta…
No non lo è, ma non ci piace ripeterci, non vogliamo annoiarci di noi stessi, la nostra sfida quando iniziamo a lavorare ad un nuovo album è sempre quella di valicare i nostri confini e spingerci musicalmente dove non siamo mai stati. Prima di stupire l’ascoltatore vogliamo stupire noi stessi. Questo album dopo il successo di Young Folks ci è servito come terapia, per la prima volta non siamo entrati in studio di getto e abbiamo creato, il disco è nato negli sprazzi di tempo libero che ci concedevamo quando ne sentivamo il bisogno, questo ci ha permesso di curare ogni dettaglio. Non si può duplicare il successo, va conquistato di volta in volta.

Questa volta non ci sono fischiettii ma handclapping sparsi qua e là, vi divertite a ricreare suoni con parti o abilità del corpo?

Assolutamente, ci piace ricreare suoni da oggetti non comuni non solo utilizzando il nostro corpo, in questo album abbiamo suonato scatole di fiammiferi, bottiglie, coltelli, un ombrello… cerchiamo di non annoiarci insomma!

Nel singolo Nothing to Worry About c’è un coro di bambini, com’è stato lavorare con loro e cosa ha ispirato il pezzo?

Quando abbiamo scritto il pezzo avevamo in mente di fare qualcosa sullo stile di Hard Knock Life di Jay Z, abbiamo un amico che insegna alla School of Rock di Vasteras in Svezia un posto incredibile per i ragazzi che vogliono iniziare a suonare, ci ha suggerito due ragazzine molto talentuose che abbiamo tarsformato in un coro.

L’album si chiama Living Thing ma in copertina c’è il disegno di una natura morta con tre teste d’animali impagliate, un contrasto voluto?

Quando facciamo un nuovo album abbiamo un paio di regole che ci piace seguire, la prima è che il titolo dev’essere composta da due parole che si devono poter dividere in tre sillabe, e dopo l’omonimo debutto abbiamo avuto Falling Out, Writer’s Block, Seaside Rock e adesso Living Thing, mentre in copertina ci devono essere sempre tre oggetti che rappresentano i membri della band. Inoltre credo che il disegno di Thomas Broomé rifletta perfettamente la musica, il titolo si riferisce anche al fatto che noi siamo tre individui che vivono e pensano separatamente ma quando siamo insieme diventiamo una band, quindi un oggetto vivente.
A proposito di voi ragazzi, come coordinate le vostre teste in studio, litigate o avete idee molto simili?
Litighiamo! Ma credo che litigare sia molto creativo, se andassimo d’accordo tutto il tempo credo che la nostra musica sarebbe ovvia e noiosa. Io canto e loro suonano così quando devono fare i backing vocals io li sgrido e pretendo il meglio da loro e così fan loro con me quando suono. Prima di iniziare a fare un album facciamo sempre dei mix cd con la musica che ci piace in quel momento, e dopo averla ascoltata decidiamo che ci piace un giro di basso, o un suono di batteria, è molto più facile tornare in dietro ad ascoltarlo che stare a spiegare a voce quello che vorremmo ottenere. E se pensi che io ascolto musica rockabilly, John musica classica speriemntale e Bjorn elettronica e dance il risultato è sempre interessante. Inoltre nei nostri mix cd’s c’è sempre la musica che ascoltavamo da ragazzi nelgi anno ’80 come i Duran Duran, gli A-Ha, Depeche Mode, Paul Simon, Fleetwood Mac e anche tanto funky, hip-hop e pop africano con un sacco di percussioni.

L’ultimo artista che hai scoperto e che ti ha sorpreso?
Existence Minimum, è un batterista svedese ma è anche un ottimo singer/songwriter, crea pop dal sapore kraut, dark e minimalista, un mix tra pop svedese, New Order e i Can. Incredibile!

THE HORRORS


Freak of nature, weirdo, posers, boy band noir, rock meteors, insulti e sbeffi si erano sprecati all’epoca del debutto dei The Horrors, ma i cinque ragazzi di Londra hanno sempre trovato rifugio tra le pagine di Hot che folgorato dal loro impeto creativo punk e sregolato, aveva dedicato loro una copertina ciascuno nel giugno ’07. Oggi i The Horrors tornano e sembrano un’altra band, loro sono sempre gli stessi, meno trucco stessa quantità di nero indosso, ma abbandonato il punk garage dell’età inquieta nel nuovo disco Primary Colours che sbalordirà chiunque li ha calunniati a oggi perché è un album che incanta, pieno di sfumature, tessiture elettroniche, di riflessi e giochi di luci, toruosi, cerebrali, psichedelici con riferimenti al passato e soluzioni avant garde. Vogliamo vedervi tutti restare a bocca aperta, scettici che non siete altro e che vi siete basati solo sulle cotonature di cinque ragazzatti con il talento che gli scorre nelle vene. In un giorno troppo caldo d’inizio aprile abbiamo incontrato Rhys Spider e Josh Third sul tetto di un hotel di Milano, e con un wiskey e coca sotto il sole abbagliante, abbiamo chiacchierato perdendo lentamente coscienza merito anche dei loro capelli a fungo che hanno indotto un effetto allucinogeno. Sembrava d’essere nel deserto, tra cactus e scorpioni, con la vista ondulata, un’eperienza quasi mistica che rivive in ogni traccia di Primary Colours un album maturo, moderno, visionario.

Che cambiamento ragazzi, cos’è successo?

Spider: Tante cose ci sono successe dopo che è uscito il primo album, siamo stati un anno intero in tour, siamo cresciuti come gruppo, abbiamo aggiunto un gradino alla nostra esperienza, chi ci ha sentito suonare all’inizio e alla fine del tour può dire di aver visto due band diverse da quanto siamo cambiati. Il fatto è che non abbiamo dato retta a nessuno e siamo andati avanti per la nostra strada, abbiamo preso confidenza con noi stessi e che abbiamo capito che non dobbiamo relazionarci a nessuno ma solo pensare a migliorare noi stessi. Finito il tour siamo entrati subito in studio pieni d’idee, eccitati e la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di metterci in discussione cambiando strumento. Io ho abbandonato le tastiere in favore della basso, e Tom il nostro bassista è passato alle tastiere, ma non avevamo fretta, avevamo tempo e ce lo siamo preso.
Josh: Non abbiamo premeditato un cambiamento, è successo, ci siamo messi a suonare per giorni e credo che il risultato sia il riflesso di quel che avevamo in testa in quel preciso momento.

Strange House era un album punk in bianco e nero, Primary Colours mantiene intatta la vostra identità ma è pieno di sfumature e tessiture impreviste, si riferisce a questo il titolo, oggi vedete a colori?

S: Grazie di averlo notato, molti tendono a dare giudizi affrettati etichettando il nostro album come “molto dark”, lo abbiamo scritto per la maggior parte la scorsa estate, e credo ci siano molte altre qualità che vanno al di là del dark, che assume il valore di un’etichetta. Eravamo molto interessati nell’elevare il nostro stato mentale trasportandolo in musica, è complicato da spiegare, ma per noi questo è un album gioioso. I colori primari sono un punto di partenza con cui puoi dipingere tutto quello che vuoi, in ogni modo, la musica è vibrante, distorta, quasi psichedelica e in continuo movimento come un dipinto.

Io credo ci sia molto romanticismo nel disco, che dite?

R: E’ un disco decisamente romantico, è un album molto british che parla d’amore per la musica, il romanticismo è un eredità della musica anglosassone. Sicuramente è un disco pieno di passione.



E’ vero ci sono spazi aperti, inaspettate virate gioiore, un cantato melodico ma l’album è stato scritto in una stanza senza finestre…

S: Sì, era la nostra sala prove a Londra, potevamo entrarci e suonare ogni qual volta ci passava per la testa, anche se in realtà passavamo giorno e notte in quella stanza. Si è creata una strana alchimia tra di noi e quel luogo, quando entravamo in quella stanza il mondo del disco era reale, prendeva vita solo in quelle quattro mura, come un’esperienza surreale ma vera, che ci ha permesso di perderci nel disco d’intraprendere un viaggio mentale. Eravamo molto eccitati all’idea di scrivere questo disco e mentre accadeva eravamo consapevoli che stava accadendo qualcosa di speciale.

Com’è successo che Geoff Barrow dei Portishead ha deciso di produrvi l’album?

S: Lo abbiamo conosciuto la sera della reunion ufficiale dei Portishead, la prima volta che hanno suonato Third dopo dieci anni di assenza sulle scene. Alla fine del concerto ci siamo trovati a parlare di apparecchiature, chitarre, tastiere vintage, c’è stata un intesa immediata. Così decidemmo di lascirgli il nostro demo e di farci sapere cosa ne pensava, dopo alcuni giorni ci ha richiamato entusisata e abbiamo deciso che avrebbe prodotto l’album. Uno dei nostri obiettivi era quello di sperimentare il nostro suono e i Portishead sono dei pionieri in questo, Geoff è un grande collezionista di vinili e abbiamo passato ore a parlare di produzioni degli anni ’60 e ’70, è stato quasi naturale lavorare con lui, quando è arrivato in studio avevamo già cominciato a registrare e lui ha rispettato il nostro lavoro senza invadere il nostro spazio.

Come siete passati da una major ad un’etichetta indipendente come la XL?

R: Non ci hanno rinnovato il contratto e ci hanno aperto le porte verso la libertà! Sia chiaro, alla Universal non ci hanno mai detto cosa dovevamo fare, ma avevamo l’impressione che nessuno avesse la minima idea di quel che stavamo facendo, ne tanto meno da dove venivamo musicalmente, volevano farci scrivere una hit radiofonica e ci descrivevano come “strani” perché secondo loro avremmo fatto presa sui ragazzini. Ma la nostra musica non è proprio per ragazzini…
S: La cosa ridicola e paradossale è che Primary Colours è la cosa più accessibile che abbiamo mai fatto da quando esistiamo, ma alla XL possiamo fare quello che vogliamo senza doverne rendere conto a nessuno!

Spider cosa mi dici del tuo progetto Spider and the Flies?

E’ nato dal mio primo contatto con i sintetizzatori, io e Tom abbiamo iniziato a fare casino con i synth dai tempi del primo album, eravamo interessati nell’esplorare l’elettronica e così abbiamo inziato a collezionare macchine con cui farci i nostri viaggi senza barriere, è stato un pò come un crossover per noi tra il primo e il nuovo album. Abbiamo pubblicato l’e.p. Something Clockwork This Way Comes, ma è stato più uno scopo per raggiungere un obiettivo che si è concretizzato nel nuovo disco degli Horrors, questo sipario creativo ha decisamente influenzato Primary Colours.

Spider, cosa t’ispira di più nel comporre musica?

Gli stati mentali, l’emozioni, il provare qualcosa quandi senti un suono che provenga da un synth o da una chitarra, anche la canzone perfetta pop è quella che colpisce immediatamente l’ascoltatore a e si fa sentire in testa, negli occhi arrivando al petto. Questo m’ispira. Oddio mi sento cotto dal sole…

Non c’è un filo d’ombra, probabilmente tra poco avremo un miraggio… a proposito quando crei musica la configuri visivamente?

S: La musica per me è qualcosa di visivo e… oddio mi sono perso tutto… puoi andare avanti tu…
R: Siamo interessati ad un suono cinematico in grado di evocare emozioni, a differenza del primo album che era più fatto di flash e suoni violenti, questo sembra più una lunga sequenza psichedelica, un lungo suono astratto.

I vostri esordi risalgono al Junk Club di Southend, com’è cambiata da allora la scena indie a Londra?

S: Non molto, è uno schifo, se sei un ragazzino e vuoi suonare la tua musica a Londra è quasi impossibile, ai tempi a Southend ma anche a Hoxton si è cercato di proporre qualcosa di nuovo e diverso scavallando gli schemi dettati dal mercato, valicando i confini di Londra per poter esser liberi di suonare. Il problema è che inseguito l’industria discogrfica ha creato intorno a questo fenomeno una scena fasulla, improvvisamente tutti venivano da Hoxtone o da Southend solo perché era cool ma la verità è che la maggior parte di queste band facevano schifo infatti sono durate il tempo di un singolo. Ma noi abbiamo ancora i nostri locali dove ci rifugiamo a metter musica quando vogliamo.

Dove avete lasciato il make up?

S: Da nessuna parte, ci siamo evoluti, come la nostra musica. Possiamo spostarci all’ombra?...

R: Sarà colpa del wiskey? Ordiniamo un vodka lemon!

FISCHERSPOONER


Tutti conosciamo i Fischerspooner, artisti polivalenti esplosi in pieno fenomeno Electroclash nel 2001 e creatori dell’inno Sounds Good, Looks Good, Feels Good Too che va a riempire le note sintetiche di Emerge, canzone simbolo di un’era. Non tutti però hanno avuto la fortuna di conoscerli da vicino, o meglio conoscerlo perché Warren Fischer il macchinista dell’operazione non si concede mai a nessuno mentre Casey Spooner performer e mente creativa è amico di tutti nemmeno fosse il più agguerrito dei pr, o forse lo è se al terzo album tutti siamo ancora qui ansiosi di farci due chiacchiere. Casey è un ragazzo semplice e imprevedibile allo stesso tempo, è la terza volta che lo incontro e trovo un sorriso complice ad accogliermi, probabilmente non si ricorda di me, ma la mia faccia non gli è di certo nuova, ero un’hardcore fan della band e migravo a Londra per vedere le prime e infami performance del duo. Casey è qui per parlare di Entertainment nuovo album electropop del combo newyorkese che mischia musica a teatro, danza a visual avant garde in un modo che solo loro sanno fare, ma il primo a porre una domanda è lui a me.
Senti Marco ma tu hai visto tutti e due i tour dei Fischerspooner?
Sì più di una volta, in Inghilterra, ricordo la vostra performance al Meltdown Festival, la gente vi tirò dietro degli hot dog!

Oddio! Credo tu abbia avuto la fortuna di vedere uno dei nostri migliori show in assoluto! Ti ricordi il costume da Elton Jhon? e quando ho drogato quel ragazzo sul palco? Io ballavo schivando panini… Unreal!

Ricordo il ragazzo ho sempre pensato fosse per finta…
No non lo era, eravamo pazzi! E più la gente ci copriva d’insulti e più noi ci gasavamo. Ma torniamo al punto, sto preparando il nuovo show e come sai il tour di #1 era una specie di karaoke extravaganza mentre per Odissey con una vera e propria band costruimmo un concerto rock. Oggi devo dare la mia risposta definitiva e non so se tornare alle origini e dar vita ad una nuova performance, ma attenzione, siamo in recessione quindi non avrei i soldi per fare le cose con il botto, oppure se creare un ibrido e inserire una batteria e una chitarra nelle coreografie. Dammi una risposta secca.

Onestamente io ti vedo come un performer e credo che la gente che va a vedere i Fischerspooner si aspetta uno show e di vedere una band che suona live non gliene importi nulla, quindi back to the roots!
Ok grazie. Quando ho il cervello pieno d’idee non so prendere una decisione così chiedo ad una persona estranea al contesto di decidere per me, ad esempio lo scatto che vedi in copertina del disco lo ha scelto un ragazzo che mi sono portato a casa una sera che ho fatto le ore piccole in un club. Capisco possa sembrare azzardato come metodo ma è semplice e lava via le responsabilità.

Quindi torniamo ai nostri ruoli io domando e tu rispondi?
Let’s go!

Abbiamo appena parlato di tornare alle origini, io credo che anche la musica di Entertainment sia un ritorno all’electropop oltre che alle tue origini di performer, tu cosa dici?
Prima d’iniziare a lavorare a questo disco ho passato due anni sul palco insieme alla compagnia teatrale The Wooster Group e ho interpretato l’Amleto nei panni di Laerte. The Wooster Group non è una compagnia convenzionale ma un gruppo all’avanguardia che usa la tecnlogia audio visiva riuscendo ad integrare lo spettatore nella rappresentazione. Ho imparato cose incredibili lavorando con loro. Quando abbiamo iniziato come Fischerspooner ci esibivamo nei piccoli teatri di New York, quindi anche quest’esperienza è stato un ritorno per me. Sicuramente ho messo in gioco anche il mio lato da performer scrivendo questo album che esplora, tutte le sfaccettature dell’intrattenimento partendo da cos’è e da chi siamo noi. Questa esperienza teatrale e lo showcase che Madonna ha fatto a New York per lanciare Hard Candy sono state le maggiori fonti d’ispirazione per me di quest’ultimo anno, vedere Madonna in un posto piccolo sola su un palco a tenere la scena mi ha illuminato, è stata un’esperienza quasi religiosa.

Dopo il clamore di Emerge da voi ci si aspettava il botto e invece il vostro album precedente, Odissey, non ha venduto molto. La prima traccia di Entertainment s’intitola The Best Revenge, devo cogliere qualche messaggio subliminale? Magari conro la major che vi ha scaricato…
Ahahah! No ma grande! Mi piace questa chiave di lettura, anche se la Capitol records all’epoca ci seguiva su appalto, a proposito ma esiste ancora oggi la Capitol records? In ogni caso era difficile per loro promovere il nostro disco mentre venivano licenziati uno dopo l’altro…

Tornando alla canzone, può esser letta come un omaggio a Bowie? Mi ricorda Ashes to Ashes…
Amo Bowie e recentemento durante un viaggio a Berlino ho scoperta i suoi album berlinesi che sono incredibili, non so se quando ho scritto questo pezzo avevo lui in mente ma ci hai preso perchè nella canzone suona lo stesso sassofonista che ha suonato nel disco di Bowie.

Entertainment è un album meno aggressivo e più speriementale del precedente, in ogni canzone succedono molte cose, quanto vi siete divertiti nel farlo?
Moltissimo! E’ stato divertente e tortuoso allo stesso tempo, mentre io sono molto spontaneo e parto a razzo Warren è la persona più pigra e lenta che io conosca, anche per questo abbiamo deciso di registrare l’album allestendo uno studio in casa, intanto non potevamo permetterci tutti quei mesi in uno studio vero e inoltre l’album non sarebbe risultato così gioioso, spensierato, e naturale.

Uno dei miei pezzi preferiti s’intitola Infidels of the World Unite. Quando tu ti senti un’infedele?
Ogni volta che sono in Italia.

Oltre che per le tue performance sei famoso anche per i tuoi outfit, cosa dobbiamo aspettarci sotto questo punto di vista dal tuo nuovo live show?
Come ti ho accennato prima questo non sarà un tour over the top con esplosione finale di coriandoli, il mondo è in recessione. Questo show sarà una combinazione di cose mai viste prima, sarà una combinazione unica di kabuki, flamenco, pop e viaggi nel tempo. Il guardaroba è incredibile, lo devi vedere! Ma adesso che mi ci fai pensare è tempo di confermare la mia decisione, anzi la tua, devo chiamare la band e licenziarla, prima mi ero dimenticato di dirti che a new york sono gia iniziate le prove del tour e ora che la colpa è tua sarà molto più facile per me mandare tutti a casa. Ciao!

Sei un’infame, ma mi stai simpatico per questo.
Marco Cresci

BRETT ANDERSON


Non dev’essere facile essere Brett Anderson. Icona del brit pop nei primi anni ’90 con i suoi Suede incantò molti con un affascinante voce e la sua bellezza androgina. Testi noir, sofferenza, pillole, e mal d’amore crearono due capolavori, il primo omonimo e il secondo Dog Man Star. Insieme al chitarrista Bernard Butler co-fondatore della band Brett Anderson occupa le copertine di tutte le testate musicali e fashion, è grazie a questa coppia se il giubbino di pelle nera ridiventa uno status symbol dell’indie rock e le Clipper un’istituzione dell’epoca. Come la storia c’insegna due prime donne non durano a lungo nella stessa band, così la coppia scoppia, Butler lascia gli Suede e finisce la magia. La band va avanti diritta per la sua strada e subito dopo arriva il successo commerciale con la virata pop di Coming Up, seguito da un ripido declino con un paio di dischi che non mi sento neppur di nominare, in cui Brett sembra voler rinnegare il suo passato, ignorando le canzoni che lo avevano reso celebre e persino il look che diventò più maschile e a tratti caricaturale. Nel 2004 si ricongiunge a Butler e forma i The Tears, pubblicano un album e poi scompaiono. Un paio d’anni di pausa riflessiva e dopo un fortunato tour acustico solo piano, violoncello e voce Brett Anderson torna cantautore, elegante, semplice e maestoso nelle sue interpretazioni live. Un disco omonimo nel 2007 e Wilderness nel 2008, oggi Brett è al lavoro ad un nuovo album solista, è sereno e mentre sorseggia una tazza di thè nel suo appartamento a Nothing Hill si confessa toccando inaspettatamente anche punti bui del suo passato, che oggi vive con serenità come un gentleman inglese quale è.

Ciao Brett, come va?
Ciao Marco, tutto bene grazie, sorseggio un thè comodamente seduto sul mio divano, mi sto concedendo un po’ di relax, sono pigro oggi, sarà che a Londra stranamente c’è il sole.

Sembra che in questi ultimi anni tu abbia riscoperto la gioia di esibirti e lo fai da solo con il tuo pianoforte, al massimo con l’aggiunta di un violoncello, come hai scoperto questo bisogno d’intimità?
Per caso, mi hanno chiesto di fare una data solo con il piano, mi è sembrata subito una buona idea e nel momento in cui ho cominciato a prepararmi mi sono reso conto di quanto fosse speciale e intimo esibirmi in questo modo, non l’avevo mai fatto prima e a questo punto della mia vita direi che è il perfetto modo per esibirmi.

Dagli inizi furenti alla pace interiore?
Non si tratta necessariamente di pace interiore, ma solo di approcciare le cose in modo diverso, quando ero giovane con gli Suede ero molto rumoroso ma crescendo ho capito che per tarsmettere qualcosa di forte con la musica non è necessario farlo ad alto volume, si può accoltellare qualcuno anche restando in silenzio. Volevo craere un disco semplice, spogliato, che mostrasse direttamente il mio cuore senza fronzoli e con Wilderness credo di averlo fatto. Sono così felice di come suona quel disco che mi sono messo subito al lavoro sul nuovo.

Puoi anticiparmi qualcosa?
Sto lavorando con Leo Abrahams, un musicista e cantautore che ho sempre stimato, dovrebbe uscire qualcosa entro la fine dell’anno.

Sei sempre stato abituato a lavorare in gruppo, com’è stata la prima volta che sei entrato in studio da solo?
Innanzi tutto i miei dischi a differenza di Suede e The Tears sono registrati dal vivo in studio molto velocemente, non sono stato mesi a rimuginare cosa fare e cosa non, sono libero di fare quel che voglio ed è un grande privilegio.

Una qualità che non hai mai perso nella tua musica è il romanticismo…
Molte cose sono successe nella mia vita, molti eventi mi hanno toccato e ferito e cambiato, se guardo la mia vita vedo un bellissimo viaggio che in pochi possono dire di aver percorso, il romanticismo mi ha sempre accompagnato è la chiave di questo percorso, è il mio modo di vedere la vita, è l’amore incondizionato.

Rispetto a quando hai esordito con gli Suede come vedi la discografia oggi?
La differenza è che oggi il music businness è comandato da persone sorde. Quando gli Suede hanno comnciato a fare musica non c’era quasto bisogno impellente d’infilare la musica in una categoria, non dovevamo tirare una televisione dalla finestra per far dire di noi che eravamo trasgressivi o rock’n roll. Non si pensava così tanto alla classifica o a fare il singolo giusto, c’erano meno band in giro e la qualità era più alta. Oggi posso guardarmi alle spalle e non pentirmi di quel che ho fatto, ho sempre detto la mia su tutto, so di aver ispirato delle persone e di aver creato qualcosa che la gente ha apprezzato e amato.

Collega la tua ultima produzione ad un periodo degli Suede:
Pensavo giusto ieri a quanto il mio ultimo album Wilderness sia collegato a Dog Man Star, non per la musica perché sono due album completamente diversi ma per il mood e per l’atmosfera che entrambe trasmettono, sono entrambi molto neri e ci sono canzoni come The Asphalt World e The 2 Of Us che hanno un tipo di arrangiamento che si adatta ad esser suonato solo con il pianoforte.

Il tuo ultimo album si chiama Wilderness, ma voltandoti e guardando oggi la tua carriera qual è il periodo che ritieni più selvaggio?
La metà degli anni novanta, i nostri show erano selvaggi e la mia mente drogata, ero fuori controllo. Dog Man Star fu concepito sotto l’uso di dorghe e molti tendono a pensare che sia stato questo a renderlo un disco speciale. Onestamente non credo che le droghe abbiano una stretta connessione con la creatività, le droghe sono insane, ti fanno impazzire, ricordo che stavamo per scioglierci ed eravamo sempre incazzati, ma i nostri show erano incredibili.

Per molte persone cresciute ascoltando la musica dei Suede sei considerato un’icona, come ti relazioni a questo?
Ne sono lusingato ma non mi sento tale, non ci ho mai pensato più di tanto perché credo di non avere un grande ego, sono una persona qualunque che cammina per la strada e che fa musica.

E’ difficile oggi essere Brett Anderson?
A volte sì perché vengo giudicato duramente per ogni cosa che faccio rispetto a ciò che ero, e soprattutto quando leggo le recensioni dei miei lavori noto che sono giudicato più come persona che come artista e questo mi da fastidio. In giro è pieno di giornalisti pigri che non hanno nemmeno più voglia di ascoltare un disco e si basano su un comunciato stampa per parlarne. Sono disgustato da tutto questo, voglio dire nessun li obbliga a fare questo lavoro.

Sul tuo sito tieni una classifica di libri che hai letto e di dischi che stai ascoltando, al momento cosa occupa le posizioni alte?
L’album dei Fleet Foxes, Laughing Stok dei Talk Talk, Brian Eno e i Midlake mentre per quanto riguarda i libri Monster Love di Carol Topolski.