20 maggio 2008

Gallows


I Gallows sono il gruppo hardcore più chiacchierato del momento, live dopo live si sono conquistati una solida fan base e da Watford, piccolo villaggio inglese, hanno invaso letteralmente il mondo. Orchestra of Wolves; Orchestra di Lupi, è il titolo del loro album di debutto balzato alle cronache dopo un furente passaparola di fan rimasti estasiati dalle performance della band capeggiata da Frank Carter: ventitre anni, tatuatore ricoperto di tatuaggi, capelli rossi, occhi azzurri, straight edge e sul palco una vera furia. Frank ha una precisa filosofia di vita alla quale non intende sottrarsi e non provate a dirgli che è cool altrimenti il lupo che è in lui vi aggredirà.

Il vostro punk rock suona come un pugno in faccia. Non ricordo il tempo che una band come la vostra abbia ricevuto tanta attenzione da parte della stampa inglese. Secondo te perchè i Gallows sono diventati un fenomeno chiacchierato da tutti?
Onestamente non me lo spiego, non ho ancora capito cosa ci sta succedendo e perché, l’unica cosa che so è che abbiamo la possibilità di suonare ovunque ed è grandioso, siamo in giro da circa tre anni e solo oggi l’industria discografica si è accorta di noi, ci ha offerto un contratto e ha ristampato Orchestra Of Wolves il nostro debutto autoprodotto. Abbiamo chiesto e ottenuto è di non cambiare la nostra musica e di poter continuare a fare quello che abbiamo fatto sino ad oggi. Ho l’impressione di essere nella miglior band in circolazione e sono molto eccitato per questo, non vediamo l’ora di metterci al lavoro sul prossimo disco, siamo consapevoli di tutto quello che dovrà ancora succederci ma anche di quanto abbiamo da offrire. Un hardcore band che si fa largo nelle chart è fantastico e a tratti incredibile, cosa possiamo desiderare di più!

Sembra che avere tutto sotto controllo sia una peculiarità per voi…
Cerchiamo di tenere tutto sotto controllo, compresi noi stessi, siamo una band basata sul controllo totale, non faremo mai qualcosa che non ci va di fare altrimenti non saremmo in pace con noi stessi.

Quali sono le fondamenta musicali dei Gallows?
Ska, punk, indie, metal, non mi sono mai fissato su un genere, ascolto di tutto da sempre, se una canzone conquista la mia attenzione non mi importa di che genere è, di conseguenza le nostra musica è influenzata da qualsiasi genere musicale pur essendo hardcore.

Orchestra of Wolves è un titolo che si sposa perfettamente con la vostra musica, come’è nato?
I lupi sono uno i miei animali preferiti, volevo si capisse subito che siamo una band in grado di mordere e di attaccare le persone con la nostra musica, come se un branco di lupi fosse rinchiuso dentro al nostro album.

Hai solo ventitre anni e hai deciso di adottare uno stile di vita straight edge che significa, no fumo, no droghe, no alcool, no sesso occasionale. Conoscendo le abitudini dei teenager inglesi che sono esattamente l’opposto mi chiedo cosa ti ha portato verso questa decisione?
Nulla, non ho mai bevuto, non ho mai fumato e non mi sono mai drogato questo sono io e non voglio niente che non sia mio nel mio sangue.

Contrariamente alla musica mi sembra che i tuoi testi siano particolarmente accessibili, è una scelta ragionata?
Credo di scrivere testi con cui le persone possano confrontarsi, non mi piace scrivere di cose di cui non conosco, mi piace l’idea di poter scrivere testi accessibili a tutti perché penso che in questo modo molte più persone potranno apprezzare le nostre canzoni. La musica può anche essere difficile ma i testi devono essere accessibili. Abandon Sheep ad esempio parla di una relazione che arriva a fine corsa e In The Belly of a Shark parla della solitudine che bisogna attraversare alla fine di una relazione, sono storie semplici e comuni ma che esprimono emozioni.

E’ vero che alcuni puristi della scena hardcore vi hanno attaccato dandovi dei venduti perché avete firmato un contratto discografico?
Dipende da come vedi le cose, noi veniamo dalla scena underground è lì che siamo nati, abbiamo fatto incredibili show senza guadagnare soldi ma non ci siamo imposti di rimanere legati a questo ambiante, quando fai musica vuoi vederla crescere e farla arrivare a molte persone e quindi rimanere underground è impossibile a meno che non si decida di suonare tutta la vita per gli amici. Io sono contento di avere intrapreso una carriera e quindi a queste persone rispondo: Fuck You! Non mi interessa cosa pensano.

I vostri show sono molto selvaggi, tu scendi tra il pubblico e cerchi sempre un contatto fisico con le persone, gli canti letteralmente addoso, ti perdi nella musica o fa parte della performance?
Io non perdo mai il controllo, anzi quando sono sul palco io ho il controllo di ogni singola parte del mio corpo, forse chi mi guarda pensa che perdo il controllo ma è esattamente l’opposto. E’ una questione di passione estrema.

Cosa mi dici del tuo lavoro come tatuatore?
Non ho mai smesso di fare tatuaggi, è quello il mio lavoro, anche se ora con i Gallows sto vivendo qualcosa di grandioso. L’industria discografica non è solida, non si può sapere cosa succederà quindi è bello poter sapere di avere un lavoro quando tutto questo finirà.

Hai un genere preferito?
Mi piacciono i tatuaggi old school, i traditional sono i migliori.

Qual’è la tua paura più segreta?
Ho paura delle balene, mi terrorizzano.

Cosa ti fa più arrabbiare?
L’ignoranza e le persone che mi fanno sprecare tempo.

Cosa rispondi a chi ti ha eletto personaggio cool dell’anno?
I don’t give a fuck!

Consigliaci un disco:
“This is where the Fights Begin” dei The Ghost of a Thousand è una band di Brighton che scrive canzoni incredibili con dei testi veramente interessanti.

MGMT


Attenzione! La miccia della Grande Mela, spenta dal debutto di Stroke & co., si è riaccesa con un nuovo suono, apocalittico, primitivo, psichedelico creato da due giovani boys di Brooklyn che si fanno chiamate MGMT. Con un immaginario che spazia dal batik alle multinazionali Oracular Spectacular è un album elettrizzante che fa rizzare i peli delle braccia ascolto dopo ascolto, un debutto come se ne sentono pochi e che si apre con Time to Pretend, canzone che si burla del music biz di cui gli stessi MGMT fanno parte, e che con una frase come: “Let’s make some music make some money, find some models for wife. I’ll move to Paris, shoot some heroin and fuck with the stars” si merita la candidatura a singolo dell’anno senza discussioni. Divertenti, naive, cinici, imprevedibili, avant garde, la giusta dose tra experimental e pop. Andrew VanWyngarden, voce e Ben Goldwasser, synth, tastiere e backing vocals sono in arte gli MGMT (previously known as The Management).

Ben, è vero che avete iniziato a fare musica per gioco e che durante il vostro primo concerto avete suonato per venti minuti la colonna sonora di Ghostbusters?
Sì. In realtà è stata una via di mezzo tra gioco e realtà, non ci piace prenderci troppo sul serio, non sono mai riuscito ad apprezzare la musica di un artista troppo pieno di sé e poi la colonna sonora di Ghostbuster è un vero capolavoro. La verità è che abbiamo iniziato a comporre canzoni pop per divertirci senza l’intenzione di diventare una vera band, ma poi ci abbiamo preso gusto.

MGMT è un nome dall’aspetto politico come sembra o avevate altro per la testa?
Volevamo un nome che suonava come una misteriosa corporazione più che ad un qualcosa di politico, anche se nelle nostre canzoni ci sono diversi riferimenti e alcuni di questi toccano temi politici ma senza la presunzione di voler dire cosa è giusto e cosa no, esponiamo il nostro punto di vista.

I vostri testi sono molto criptici è questo che intendi dicendo che non volete schierarvi, preferite che ognuno li interpreti a modo suo?
Tra di noi parliamo molto del significato specifico di ciascuna canzone ma non ci piace forzare le persone, credo sia giusto che ciascuno vi trovi il proprio significato, è una delle libertà che solo la musica può dare. Mi capita spesso di ascoltare canzoni e di attribuirvi un significato e poi scoprire dall’artista stesso qual’era il suo punto di vista e pensare: cavoli il mio è più bello! Quindi perché privare ciascuno della propria immaginazione?

Time To Pretend suona come uno statement contro il music business, il controsenso è che avete appena firmato per una major, come lo spieghi?
Abbiamo avuto l’opportunità di creare quest’album e di poterlo pubblicare così com’era senza restrizioni ne cambi, è figo e credo che le cose potranno cambiare in futuro, forse tutto questo controllo presto finirà perché gli artisti stanno iniziando ad andersene proprio per questo motivo, quindi se le major non ne prendono coscienza sarà la loro fine. Non avrei mai pensato di poter sentire una delle nostre canzoni alla radio, sono un po’ troppo distanti dai loro canoni tradizionali e probabilmente senza aver firmato per una major non sarebbe stato possibile.

Nelle vostre canzoni e anche nel vostro look c’è un feeling apocalittico, primitivo e futuristico allo stesso tempo, cosa vi ha portato verso questo risultato?
Parliamo un sacco delle nostre canzoni, mi ha sempre divertito l’idea di due musicisti che passano ora a discutere su un pezzo, mentre scrivevamo l’album pensavamo e discutevamo molto del futuro, di come sarà, e ciò che ne usciva non era nulla di buono, è uscito un futuro buio, una sorta di ritorno alle origini della terra in cui le persone vivono come primitivi sulla spiaggia. L’apocalissi e la rivelazione sono due punti centrali dell’album. Per il calendario Maya il 21 dicembre del 2012 sarà la fine del mondo e noi ci siamo immedesiamati molto in questa situazione nel concepire Oracular Spectacular.

Hai mai incontrato un oracolo sulla tua strada?
No! Conto di incontrarne uno prima del 21 dicembre 2012.

Dal vivo le vostre canzoni cambiano molto, siete più distorti, psichedelici e lasciate molto spazio agli strumenti, non rischiate di confondere le idee di chi viene a vedervi?
Dal vivo siamo simili ma diversi, le canzoni nell’album seguono una struttura mentre live lasciamo molto spazio all’improvvisazione, le canzoni sono più ruvide e rock’n roll. Sì, non siamo esattamente ciò che la gente si aspetta nel senso che spesso veniamo confusi per una band elettronica, chi viene a vederci pensa di andare ad un dance party e invece si sbaglia. Ci diverte molto questa confusione.

The Niro


Anche se si definisce “An Ordinary Man” come titola l’e.p. che ha preceduto l’omonimo album, The Niro d’ordinario non ha proprio nulla, soprattutto se paragonato alla scena musicale italiana che lo circonda. Cantautore romano, ha stupito chiunque lo ha visto suonare dal vivo con un appeal seducente e canzoni cantate rigorosamente in inglese. Quello di The Niro è un mondo in bianco e nero ma ricco di sfumature, malinconico, viscerale e ambizioso, le sue canzoni scalfiscono il cuore e lacerano l’anima, la sua voce morbida ma tagliente lo ha fatto accostare a cantautori internazionali quali Jeff Buckley o Elliot Smith. Da tempo la scena cantautoriale italiana aspettava il suo outsider, ora c’è e si chiama The Niro.

Come nasce artisticamente The Niro?
The Niro inizia a suonare molto piccolo, mio padre era un batterista, smise di suonare la batteria negli anni ’70 e la lasciò in camera mia, quindi iniziai a scoprirla molto piccolo e a sette anni la suonavo. Verso i tredici anni inizio a suonare chitarra e basso ma la batteria rimane il mio approccio vero alla musica tanto che nelle prime band in cui suono faccio il batterista. Poi la voglia di scrivere canzoni mie prevale e quindi torno alla chitarra, lascio le band in cui militavo all’epoca ed estrapolando membri da ciascuna formo la mia squadra e insieme decidiamo di chiamarci The Niro. Il progetto dura circa due anni ma nel 2004 mi trovo da solo e mi tengo il nome proseguendo per la mia strada.

The Niro è un nome geniale, come ti è venuto?
Tutti quelli che ascoltano la mai musica mi dicono da sempre che ha un’atmosfera molto cinematica, così ho cominciato a pensare nomi e riferimenti al cinema e alla fine durante un concerto dei No Twist a Roma, in cui mi stavo annoiando da morire, parlando di questa ipotesi con i miei compagni di allora e passando per i vari Monroe e Bogart è uscito il nome The Niro.

Ascoltando la tua musica i primi riferimenti che compaiono sono Jeff Buckley, i vecchi Radiohead e in un secondo momento molto brit pop. Sei d’accordo?
Allora, quello di Jeff Buckley non è un riferimento voluto, io sono convinto che più si ascolta l’album e più questo paragone andrà scemando. Jeff Buckley l’ho scoperto dopo che tutti hanno cominciato a paragonarmi a lui, prima non lo conoscevo se non di nome. Ora lo adoro ma sono più fan del padre Tim, Lorca e Starsailor sono due tra i miei dischi preferiti di sempre, la sperimentazione e la follia mi hanno sempre affascinato, anche più del mondo cantautoriale che mi è arrivato per accostamenti con Nick Drake o Morrissey.Io sono depresso, triste e malinconico e questa non è una prerogativa di pochi. Per quanto mi riguarda io sono cresciuto con il metal degli Iron Maidem, poi è arrivata la progressive e poi il brit pop, mi fa piacere se hai sentito questo riferimento.

Oggi chi ti entusiasma?
Sufjan Steven e i Mars Volta, due artisti che sono arrivati al successo facendo quel che gli pare. Mi piace chi compone senza seguire canoni prestabiliti risultando diversi ma non in modo forzato. Per quanto invece riguarda me stesso, mi piace la forma canzone ma con il particolare.

Hai aperto i concerti di Badly Drawn Boy e Amy Winehouse, com’è stato?
Fantastico. Una forte emozione che mi ha dato una grande visibilità, soprattutto suonare per Badly Drawn Boy un artista che stimo molto.

Sei italiano, canti in inglese e il tuo e.p. An Ordinary Man è in cima alle classifiche, come te lo spieghi?
Non me lo spiego!Sono in classifica in compagnia di Rihanna e Lenny Kravitz e mi fa strano soprattutto perché al momento sono l’unico italiano presente nelle quindici posizioni dei singoli con un e.p. che è tutto fuorchè commerciale. Questo mi fa pensare che forse l’Italia è pronta per qualcosa di diverso se mi ha fatto arrivare al terzo posto, in qualche modo credo di aver abbattuto una barriera anche se preferisco non sapere quante copie ho venduto considerando quanti dischi si vendono oggi, magari ho venduto tre copie e sono finito al terzo posto!

Cosa ti ha spinto a cantare in inglese?
Ho cominciato a cantare in inglese, poi mentre lavoravo come giornalista, scrivevo cronaca nera per un quotidiano a Roma, mi proposero di cominciare scrivere in italiano, accettai ma le mie canzoni iniziarono a diventare retoriche, il mio modo di cantare è molto lungo e in italiano diventava pesante. L’italiano parlato è bellissimo, è poetico e melodico, ma cantato per me è come una minestra buona ma troppo saporita. Poi in italiano non riesco ad esprimermi e non mi piace scegliere compromessi, quindi ho proseguito con l’inglese.

La malinconia è una prerogativa delle tue canzoni, cosa ispira di più il tuo lavoro?
Mi sono accorto che più cresco e più i miei testi parlano d’addii e di donne che mi hanno abbandonato, però mi piace anche inventare storie fantasticando su fatti reali perchè spesso la realtà supera la fantasia.

Come descriveresti il tuo mondo in bianco e nero?
Un mondo sognante la cui base è fondata su di una malinconia dalle mille sfaccettaure che si assaporano ascolto dopo ascolto. Non mi piacciono le cose immediate, preferisco la scoperta, il rivelarsi, lo stupire.
Sono molto severo sulla selezione dei miei pezzi, li ascolto almeno cento volte prima di decidere se tenerli o scartarli e se una canzone alla novantanovesima volta non mi convince la butto via.

Raccontaci un segreto…
La notte prendo la macchina e da solo inizio a vagare senza meta per le strade di Roma ascoltando musica, solo così riesco veramente a capire se un album mi piace, è un test che anche ogni mio pezzo deve superare.

Quando capisci se un pezzo è pronto per finire su disco?
Quando lo ascolto di giorno e mi piace e poi lo riascolto la notte e mi fa impazzire.

Vampire Weekend


“Fancy Afro-Pop Music” si potrebbe descrivere così la musica dei Vampire Weekend la band più strampalata e inaspettata che la scena indie newyorkese potesse offrirci. Quattro ragazzi di ventitrè anni che s’incontrano al college e iniziano a suonare insieme convogliando le loro passioni nella musica, niente di nuovo certo, se non fosse che le loro passioni sono la grammatica, Louis Vuitton, le colonie africane, indiane e David Byrne. Il fatto è che questo mix è geniale, da tempo non si sentiva un debutto tanto ispirato con canzoni tanto semplici quanto intelligenti, con trovate così folli da sembrare le più ovvie. E’ bastato il singolo Mansard Roof con le sue percussioni intrappolate e le sue tastiere fluttuanti a far accendere la miccia, tanto che oggi Ezra Koenig, Rostam Batmanglij, Chris Tomson e Chris Baio hanno tra le mani il primo album “atteso” di questo 2008 da poco iniziato.

Ezra, quale obiettivo avevate in mente prima di formare la band?
Usare strumenti rock classici per creare musica rock non convenzionale, unendo il risultato ad alcune nostre passioni come la musica classica, gli archi e la musica africana.

Se il vostro obiettivo era quello di creare qualcosa di diverso, credo che ci siate riusciti.
Grazie, credo il trucco sia nel nostro modo di lavorare insieme, quando ci troviamo a suonare tutto accade in modo molto veloce, abbiamo le idee chiare su cosa ci piace e cosa no. Non vogliamo farci influenzare dagli altri e così cerchiamo di creare il nostro suono. E’ da quando ho dieci anni che alla radio a New york sento sempre le stesse canzoni grunge, oggi ne ho ventitre e non ne posso veramente più.

Sono curioso di sapere cosa vi ha spinto a scegliere come nome Vampire Weekend perché è totalmente forviante, sembra il nome di un gruppo indie rock o emo…
Sono d’accordo se ti riferisci solo a Vampire ma nel nostro caso è seguito dalla parola Weekend che per me significa qualcosa di più solare e di divertente.

Non fraintendermi, mi piace che ascoltando il vostro disco ci si trova davanti a qualcosa di completamente inaspettato, non solo per la musica che fate ma anche per il nome che vi siete scelti, volevo solo capire se era vostra intenzione disorientare le persone…
Sì ci piace questo punto di vista, in effetti continuiamo a scacciare gotici che ci chiedono d’essere nostri amici su MySpace solo per il nome che abbiamo, non credo abbiano mai sentito una nostra canzone.

Come è successo che la cultura africana e anche quella indiana hanno influenzato e decretato il vostro stile con un risultato così pop?
Abbiamo cercato di combinare la nostra musica con diverse culture, è un processo affascinante. Credo in parte dipenda anche dal fatto che la mia famiglia sia iraniana e che mio padre abbia studiato in Inghilterra. Sono cresciuto in mezzo a culture diverse, all’inizio sembra strano che riescano a convivere tra di loro ma viste da vicino hanno diversi punti in comune. Inoltre ci siamo conosciuti alla Columbia University e quindi abbiamo riversato i nostri interessi nella musica cercando si sovvertire i clichés del rock. Ci piace la storia, la grammatica, la geografia, abbiamo utilizzato i nostri interessi per fare la nostra musica.

Non ditemi che non siete fan del lavoro di artisti come David Byrne o Peter Gabriel?
Certo che lo siamo, Byrne ci ha anche mandato un’email dopo aver visto un nostro concerto e la cosa ci ha lusingato, Non avevo mai pensato che la nostra musica potesse essere influenzata dai Talking Heads ma pensandoci mi sono accorto che abbiamo in comune lo stesso modo di relazionarci alla musica.

Vi aspettavate una simile attenzione?
Sì, sono mesi che la stampa ci sta addosso, da quando abbiamo pubblicato il nostro primo singolo Mansard Roof, quindi abbiamo avuto modo di prepararci a tutta quest’attenzione.

Vi è facile ricreare l’album dal vivo?
Non c’interessa ricreare l’album, non ci piacciono le band che dal vivo rifanno il disco. Le nostre canzoni dal vivo sono più energiche e ci divertiamo molto a suonare.

The Wombats


Se dovesse iniziare una nuova rock’n roll revolution, i Wombats sarebbero sicuramente tra i capostipiti del movimento, con canzoni tirate, ritornelli che ti si appiccicano addosso e una sana dose di follia, ma senza la pretesa di voler cambiare la storia dell’indie rock. Arriva alla fine dell’anno questo gioiellino power pop punk, che conquista a cominciare dal titolo A Guide To Love, Loss & Desperation, che sembra rubato ai Joy Divison ma che con la loro musica non ha nulla a che fare nonostante i testi siano tutt’altro che allegri. I Wombats però sono dei furbacchioni e hanno intitolato il singolo che li ha aiutati a raggiungere la notorietà proprio Let’s Dance to Joy Divison, ma non rimuginiamo troppo, casomai balliamoci sopra a colpi di handclapping e con tanto di piedino a scandire il tempo. Matthew “Murph” Murphy (voce, chitarra, tastiera) Dan Haggis (batteria, voce) e Tord Knudsen (basso, voce) sono i Wombats, da Liverpool.

The Wombats, in italiano i vombati, sono dei maialini pelosi in via d’estinzione che vivono in Australia, è vero che avete scelto questo nome perché avete una vera passione per gli animali?
Dan: Sì, in realtà abbiamo in comune una passione per gli zoo safari, un giorno ci siamo stati insieme e guardando gli animali cercavamo un nome per la nostra band, all’inizio la scelta è caduta sulle capre ma poi abbiamo visto i vombati e non hanno più avuto rivali.
Murph: Quando abbiamo iniziato a uscire insieme ci ubriacavamo parecchio, eravamo al college e ogni mattina ci svegliavamo sul pavimento di qualche camera per studenti. E’ stato allora che abbiamo iniziato a suonare cazzeggiando, la prima canzone che abbiamo scritto è un pezzo che parla di una capra con problemi di droga, l’abbiamo suonata anche al nostro primo concerto al The Cavern a Liverpool ma poi è morta di overdose.
Tord: Ci divertiamo anche un sacco a imitare gli animali, Dan è bravissimo a fare il topo, è la sua arma segreta per conquistare le ragazze.

Cercando in rete ho trovato che wombat è un’abbreviazione che si usa in chat per dire: waste of money, brain and time. Non avete nulla a che vedere con questo?
T: In realta lo abbiamo scoperto dopo, ma ci piace, va benissimo per noi perché le nostre canzoni parlano di relazioni umane e poi io sono un enorme spreco di cervello!
Dan: Io sono uno spreco di tempo.
Murph: E io sono uno sperperatore di denaro.

A Guide of Love, Loss and Desperation è un titolo drammatico che va a scontrarsi con i ritmi catchy & party del disco, vi piacciono i contrasti?
M: Il nostro stesso nome è stupido rispetto alla musica che facciamo.
D: La vita è fatta di contrasti e paradossi, e a noi piace confondere e prendere in giro le persone.

Anche l’inizio dell’album è spiazzante, Tales of Girls, Boys and Marsupials è un intro indie gospel spettacolare!
D: E’ cool indie gospel! Ci piace, d’ora in poi lo useremo sempre. Volevamo iniziare l’album in un modo insolito e ci sembrava carino fare qualcosa a cappella, la usiamo anche per aprire i nostri concerti ed è divertente vedere le facce della gente che si aspetta del rock n’ roll e invece si ritrova tre ragazzi che cantano scandendo il tempo con le mani.
M: E’ l’ultima cosa che ti aspetti da una band indie.

Come è nata Let’s Dance to Joy Division?
M: Ovviamente non è una canzone sui Joy Division, avremmo potuto intitolarla Let’s Dance to Radiohead o to Nick Drake, per noi è una canzone che celebra la voglia di ballare e divertirsi senza troppe pretese, non conta dove sei o con chi, quando senti il ritmo salire bisogna lasciarsi andare e ballare.

A voi ragazzi piace ballare?
D: Un sacco! Ci divertiamo a inventare passi assurdi specialmente quando siamo sul tour bus e poi li riproponiamo sul palco.
T: Io ballo almeno quanto bevo!
M: E’ il modo migliore per scaricare le energie negative e per fare evaporare l’alcool.

Tra poco sarà Natale, qual’è il regalo più bello che avete ricevuto nei natali passati?
M: Un robot di Robocop che sparava i pugni, peccato che dopo tre giorni li ho sparati sul tetto di casa e non li ho mai più recuperati!
T: Il piccolo chimico.
D: A me fanno sempre regali assurdi che non capisco, ad esempio ricordo che l’anno scorso qualcuno mi regalò una lanterna a petrolio…

Avete numerose date live alle spalle tra cui un tour in Giappone, qual è l’episodio più assurdo che vi è capitato?
D: Quando siamo andati in Giappone per il Fuji Rock, i poliziotti locali conrollandoci le Visa ci hanno detto: “Noi vi facciamo entrare in Giappone ma voi ci fate trovare al vostro albergo dei biglietti per il festival perché è sold out, l’indirizzo lo conosciamo”.

Qual è il disco che al momento gira di più sul vostro tourbus?
D: La colonna sonora de Il Libro della Giungla e Release the Stars di Rufus Wainwright.
M: Sei così preso da Rufus Wainwright che se ti invitasse in camera sua dopo il concerto per un aftershow privato ci andresti.
D: Sono un ragazzo gentile sai che mi è difficile dire di no!

The Violets


“We are punk delicate” sì descrivono così i The Violets band inglese uscita dallo stesso scantinato di These New Puritans, XX Teens e Wretched Replica, ma a differenza loro hanno una carta in più che si chiama Alexis McCloed, capello biondo platino e cuore nero, un mix tra Siouxsie e Debbie Harry che dal vivo esplode incutendo persino timore ai malcapitati delle prime file. La poesia e il cinema sono la principale fonte d’ispirazione dei The Violets che trasformano parole e immagini in suoni aggressivi ma dall’animo melodico che si susseguono in The Lost Pages, folgorante album di debutto. Quando arrivo al locale per l’intervista la band sta facendo il soundchek e trovo Alexis accovacciata in un angolo, faccia in giù e mani sule orecchie, immobile in mezzo al frastuono, le picchietto una spalla e lei mi rivolge un’occhiata da psycho killer, poi sorride si alza e mi stringe la mano.
“A volte spavento le persone lo so, lo faccio apposta. Specialmente sul palco mi piace essere aggressiva cantare in faccia a chi sta in prima fila e prenderli per il collo. Poi una volta finito il concerto sono piuttosto introversa e taciturna, sul palco sono più me stessa rispetto al quotidiano”.

Sulla copertina del vostro album ci sono due mani che battono a macchina velocemente, la velocità è riconducibile al vostro suono punk, mentre la macchina da scrivere alla vostra passione per la letteratura e i dialoghi cinematografici?
E’ un’immagine che colgie l’essenza della nostra musica, non tutti riescono a carpirla, ma ci piace essere criptici e anche enigmatici, non ci piacciono i testi da una lettura e via, ci piace il ragionamento. Il cinema e la poesia sono facilmente musicabili perché entrambi trasmettono forti emozioni, non avrebbe senso ispirarsi ad altre band copiando suoni già esistenti, altrimenti diventeremmo noiosi e realisti come tutte le band là fuori, ci piace il lato criptico e astratto delle cose. Per dirla tutta io non mi siederei mai in un pub a scrivere testi circondata da pinte di birra.

E’ vero che il vostro singolo Foreo è stato ispirato dal film Marnie di Hitchcock?
Il testo della canzone è formato da pezzi di dialoghi del film, mi piacerebbe che qualcuno se ne accorgesse un giorno e me lo venisse a dire, ne sarei estasiata. Ma alla fine penso che l’importante sia che ciascuno ascoltando Foreo trovi il proprio significato indipendentemente da quello che ha per me. Amo le ambiguità.

Oltre al cinema, la vostra attitudine, il vostro look e gli artwork, fanno parte di un mondo in bianco e nero che ha anche un risvolto teatrale, che dici?
La nostra estetica è puramente teatrale e avere un’estetica forte è importante nella musica, pensa a David Bowie o a Lou Reed. Siamo circondati da band che vestono fluo e hanno anche il coraggio di dire che non hanno un’immagine studiata, che loro comperano i vestiti al mercatino. Devo aggiungere altro?

Tre film essenziali per i The Violets?
Gli Occhi dell’Assassino con Jennifer Jeson Leigh, ogni film in cui recita è una fonte d’ispirazione per me ma questo in particolare. Labyrinth con David Bowie, la colonna sonora della mia infanzia e poi Suspiria di Dario Argento, una vera opera d’arte sanguinaria. Ma ce ne sono moltissimi è difficile sceglierne tre.

Credi che l’arte e la musica salveranno il mondo?
Solo pere gli intellettuali e per i nostri fans credo, nel senso che spero che le nostre canzoni li portino ad indagare nel nostro mondo e sulle nostre referenze, ma non credo cambieremo la loro visione politica.

The Real Heat


Shaki, Zaza e Suki sono come un uragano, tre sorelle adolescenti lasciate allo sbaraglio, party kids presenzialiste della notte londinese sembrano fuggite dalle riprese di un episodio di Skins.The Real Heat, questo il loro nome d’arte, stanno scuotendo i club della capitale con il loro pop sintetico. Immaginatevi le Sugababes sotto acido, le Cleopatra trafitte da una luce di wood, le EnVogue con il sangue fluo.Con una manciata di singoli superpower che si chiamano Hearts Not Innit, Stand and Deliver e la recente U Know a cui ha messo mano anche il guru dell’elettronica Richard X, le Real Heat hanno fatto tutto da sole nella loro stanzetta di Brixton, scrivono, producono, si cuciono eccentrici look nu rave, hanno anche licenziato il loro manager dopo solo due settimane perché non faceva bene il suo lavoro. Queste sono ragazze con le palle!

Siete tre sorelle, avete tre età diverse e personalità molto forti, come riuscite a gestire vita e lavoro senza scannarvi, e soprattutto chi vince alla fine?
Shaki: Siamo abituate a litigare! Lo facciamo da quando siamo nate e per noi è normale non ci facciamo nemmeno più caso, urliamo da sempre.
Zaza: Per i vestiti, per i ragazzi, per la musica, abbiamo gusti molto diversi e c’è sempre la lotta a chi arriva primo allo stereo! Raggae, punk, indie, electro,ognuna predilige un genere ma riusciamo a farli convivere insieme nella nostra musica.

Avete una filosofia di vita totalmente D.I.Y. e avete licenziato il vostro manager in un lampo!...
Tutte in coro: Oh Yeahhh!
Suki: Voleva farci fare quello che non volevamo e quando voleva lui: no way!
Zaza: E’ stato un po’ come avere un nuovo boyfriend, le prime due settimane sei eccitata ed euforica ma subito dopo ti accorgi di quanto sia stupido e lo scarichi.

Vi piace essere definite delle club kids?
Shaki: Oh certo che sì!Siamo giovani e ci piace uscire, bere, ballare, conoscere ragazzi e suonare nei club le nostre canzoni. Zaza: Andavamo tutte le settimane all’Antisocial era il nostro club preferito, quando ha chiuso è stato come un lutto.

Qual è diventata la vostra serata preferita ora?
Suki: L’Electrogogo al Madame Jo Jo’s, ma la cosa più bella di Londra è che ogni due settimane c’è una nuova serata pazzesca a cui tutti vogliono partecipare.
Shaki: C’è sempre un’energia fortissima e tutti vogliono essere coinvolti, Londra non si ferma mai ma noi le teniamo passo!

La vostra musica è paragonabile a band quali En Vogue o Sugababes ma con un cuore nu rave, vi ci ritrovate?
Zaza: Siamo tre ragazze e quindi viene naturale pensare a queste band e credo che per il paragonarci a qualcuno renda più facile catalogarci e magari fare arrivare il nome Real Heat a più persone, la nostra musica non è facile da descrivere a parole.

Il Nu Rave è morto o è appena cominciato?
Zaza: No è appena cominciato! Forse il termine è passato di moda ma si è aperta una scena musicale tutta nuova che sta fiorendo proprio adesso e di cui facciamo parte anche noi.
Shaki: La scena dei club è in costante evoluzione come anche la moda e forse in questi due ambiti il nu rave si esaurirà presto, probabilmente l’anno prossimo nessuno si vestirà più nu rave ma la scena musicale sta diventando sempre più forte e ci sono tantissime nuove band eccitanti che stanno per invadere il mondo. Zaza: La novità è che questa scena è fatta proprio dai ragazzi che frequentano i club.

In Inghilterra tutti stanno aspettando che ricominci la seconda stagione di Skins, serie tv trasmessa da Channel 4 che mostra la vita degli adolescenti inglesi in modo diretto senza censure, vi ci ritrovate?
Zaza: Adoriamo Skins! Ci ricorda tanto il periodo della scuola, ragazzi e ragazze in uniformi che scappano da lezione per fumare erba e si ubriacano ai party quando i genitori sono fuori città!

Avete un look molto forte, da chi traete ispirazione?
Zaza: Principalmente da nostra mamma che è sempre stata una persona stylish! Infatti ama i nostri outfit!
Suki: Ma ci influenza un po’ tutto, la città, le persone, la club scene, è impossibile non trarre ispirazione da una città come Londra.

Qual è l’esclamazione che usate più spesso?
Suki: Oh, Fuck!
Zaza: Oh my God! Amazing!
Shaki: Tits! Bollocks!

Qual è la traccia più evidente che lasciate al vostro passaggio?
Zaza: Se passa Suki sicuramente troverete in giro delle cicche di sigarette con traccia di rossetto fucsia, la sua camera è piena di pacchetti vuoti che non butta via…
Suki: E’ vero ma se passi tu lascerai dell’underwear maschile perché ti piace collezionare le mutande di tutti i ragazzi che ti porti a casa! Ahahah!!!
Shaki: Shhhh! Non si dicono queste cose! Io lascerei una scia di scarpe, ne ho tantissime paia e sono sparse per tutta casa.

Com’è il live delle Real Heat?
In coro: Money, success, fame, glamour and fun!

Cosa potete anticiparmi del vostro primo album che uscirà l’anno prossimo?
Zaza: Abbiamo un sacco di canzoni pronte e sono una bomba! Per ora abbiamo un contratto digitale con la Pure Groove dove si possono acquistare e scaricare i nostri tre singoli, ma il disco sarà divertente, diverso, sexy & hot! Siete avvisati!

The Mars Volta


I Mars Volta sono tra i pochi musicisti che sorti sulle ceneri di un’altra band, in questo caso gli At The Drive-In, sono riusciti con il nuovo progetto a generare interesse più di quanto ne ha avuto l’originale. Famosi per i loro concerti in cui cadono in una trance catatonica irretendo gli spettatori con un fiume di psichedelia e prog-rock, Cedric Bixler-Zavala e Omar Rodrìguez-Lòpez pubblicano oggi The Bedlam in Goliath il loro quarto album nato sotto la maledizione di un Ouija board, come Omar racconta:
Durante un viaggio a Gerusalemme ho trovato in un negozio d’antiquariato una vecchia tavola Ouija e ho deciso di regalarla a Cedric.Durante il tour come supporter dei Red Hot Chili Peppers, giocarci è diventato il nostro passatempo preferito. Ripensandoci ora ci scherzo sopra ma è stata una strana esperienza a tratti orribile, continuavano ad accadere cose brutte, il nostro batterista ci ha lasciato nel mezzo del tour, il mio studio si è allagato, Cedric si è fatto male a un piede, è stato operato e ha dovuto imparare di nuovo a camminare, pensavamo d’impazzire, alla fine ho sepolto la tavola e ho proibito a chiunque di parlarne. Siamo quasi arrivati al punto di sciogliere la band.

Questa storia è diventata il punto di partenza del nuovo album, giusto?
Tutti i nostri dischi sono dei concept e questo è nato dagli spiriti che ci apparivano interrogando l’Ouija. I testi nascono dalle storie che questi spiriti ci hanno raccontato, Golia è stato il primo che ci ha parlato ma poi ci siamo accorti che c’erano anche una donna e una figlia con lui e che erano legati da una storia tragica di morte. L’uomo cercava sempre di far tacere la donna e recitava sempre un poema che è stato trasformato in un testo, è stata una vera esperienza metafisica.

Le canzoni di questo album sono cattive, claustrofobiche e inquiete, non c’è mai un attimo di respiro. Lo consideri il vostro lavoro più aggressivo?
Assolutamente sì. Volevo fare un album continuo, un unico flusso in cui ogni canzone suona come un pugno in faccia. Non ci sono canzoni morbide come potevano essere Televators o The Widow, volevo un album estremo e vitale, ma sto già lavorando al prossimo disco e sarà il nostro lavoro più morbido.

Nonostante questa violenza le canzoni sono più immediate rispetto ai lavori precedenti pur rimanendo fedeli hai vostri canoni folli…
Non ci piace ripeterci. Certo nelle nostre canzoni ci sono dei passaggi riconoscibili ma cerchiamo sempre di ottenere un suono fresco e interessante. Lungo il nostro cammino recente come ti ho detto prima il nostro batterista ci ha abbandonato e noi siamo finiti nella disperazione più totale, non è facile far entrare qualcuno nel nostro mondo, questa energia nervosa si è riversata nell’album. Fortunatamente il nuovo batterista è riuscito a far parte del nostro disegno piuttosto velocemente salvandoci.

Cosa mi dici della collaborazione con Jack Frusciante?
Jack è stato uno dei musicisti che ho usato per articolare la mia musica, è il musicista più bravo che io conosco. Siamo molto amici ed essendo la mia musica un’estensione della mia personalità la capisce subito.

Se voglio proiettare un film come sfondo visivo al vostro nuovo album, quale sarebbe più appropriato?
Se devo scegliere un film per il suo aspetto visivo dico Satyricon di Fellini.

Operator Please


Gli Operator Please sono giovanissimi, tanto che dal vivo fanno tenerezza con quei visi acqua e sapone e l’innocenza ancora viva negli occhi. Poi li vedi suonare e la loro musica indie pop punk esplode in tutta la sua energia, vera, intensa, magari non precisa ma viva, carica di quell’entusiasmo che solo un teenager possiede. Nessun membro del gruppo supera i vent’anni, si va dai diciassette della violinista Taylor ai diciannove di Amanda voce e chitarra, nel mezzo ci stanno Tim alla batteria, Sarah alle tastiere e Ashley al basso. Hanno formato al band quasi per caso ma poi hanno vinto la battaglia delle band dell’Elanora State High School nella Gold Coast australiana e da lì hanno cominciato a fare sul serio arrivando oggi a pubblicare il loro album di debutto Yes Yes Vindictive. Amanda e Taylor raccontano:

Vi ricordate il momento esatto in cui avete deciso di formare la band?
A: Eravamo a scuola, era il mio ultimo anno di liceo, ma era dal primo che desideravo formare una band, solo che ero appassionata di musica death metal e non era facile trovare dei compagni in grado di seguirmi così ho iniziato a chiedere a tutte le persone che conoscevo, in grado di suonare uno strumento, se volevano formare una band senza chiedere loro che genere di musica preferivano o altro. Non avevo idea di quel che ne sarebbe uscito ma poi abbiamo vinto l’annuale Battle of the Band del 2005 ed eccoci qui.

Come nasce una canzone degli Operator Please?
A: Come una palla di neve, più rotola e più si ingrandisce e prende forma, prima nasce una melodia con la chitarra, poi arriva la voce, tastiere, batteria e poi il violino che credo sia il legante finale lo strumento che dà quel tocco che ci distingue.

Se la passione di Amanda è il death metal qual’è quella degli altri membri della band?
T: Abbiamo un gusto base in comune ma poi ognuno di noi ha una band del cuore personale o un genere, ad esempio Tim il nostro batterista adora il jazz ma nessuno di noi altri lo ascolta.

Taylor è difficile risucire a combinare il suono del violino dentro a canzoni dal cuore punk?
T: All’inizio è stato molto difficile perché ero abituata a suonare solo musica classica scritta su un pezzo di carta. Con la band nulla è scritto e nessuno è in grado di dirmi in che chiave suonare, è stato difficile riuscire ad aggiustare il tutto, ma ora che ho acquisito confidenza mi diverto molto.

L’album s’intitola Yes Yes Vindictive, siete delle ragazze vendicative?
A: Puoi giurarci! Tutti abbiamo un po’ di vendetta dentro di noi, se vogliamo possiamo anche essere molto maleducati.
T: Siamo molto seri e rispettosi ma se qualcuno ci fa un torto non abbiamo pietà, diventiamo shitty!

Just a Song About Ping Pong è una canzone geniale a cominciare dal titolo, come vi è venuto di scrivere una canzone che parla del ping pong?
A: Non lo so onestamente… credo che funzioni perché è una canzone totalmente anticonvenzionale, non è nata facilmente, ci è voluto del tempo per assemblare il tutto, forse anche perché è stato uno dei primi pezzi che abbiamo scritto, ma è nata in modo molto spontaneo.
T: Sicuramanete non ha nessun significato, va presa così per quel che è.

Più che celare un significato credo che lo scopo della canzone sia quello di far ballare e divertire e lo centra in pieno, no?
A: Yeah! Mi piace molto cantarla perchè è quasi uno scioglilingua, qualcuno tempo fa dopo uno show mi chiese se mi sono tagliata via un pezzo di lingua per risucire a cantarla, ma se si conoscono bene le parole non è difficile come sembra.

Quello che mi piace del vostro album è che non ci sono solo party song, ma c’è anche un lato oscuro, oltre alla gioia ci sono anche insicurezze e paure credo tipiche della vostra età…
T: Grazie, sai non è facile essere compresi, ma noi siamo mica felici tutto il tempo, la maggior parte della gente pensa che siamo giovani e stupidi con il sorriso stampato sulla faccia. Credo che il nostro disco mostri più facce che rivelano anche le paure e i nostri disagi.

Mi sembra di capire che a volte non siete presi molto sul serio per via della vostra giovane età, è davvero così?
T: Capita spesso che le persone ci dicano: la musica che fate è perfetta per la vostra età. Ecco questa è la cosa peggiore che qualcuno possa venire a dirci, fa male.
A: Ci sono altre band giovani in giro, guarda i Tiny Master Of Today hanno dodici e quattordici anni e quando suonano dal vivo spaccano il culo a tutti!

Una delle canzoni dell’album si chiama Ghost, credete ai fantasmi?
A: Totalmente! Abbiamo registrato l’album in uno studio ricavato dentro ad una casa abbandonata a Sydney e lì ce n’era uno, lo sentivamo ed io ero terrorizzata a tal punto che il nostro produttore doveva stare con me dentro allo sala sala d’incisione mentre cantavo, se mi lasciava sola mi pietrificavo.

The Enemy


Da un piccolo pub di Coventry, cittadina situata a est di Birmingham, alle più grandi venue di Londra in diciotto mesi, questo è stato il percorso dei The Enemy, Tom Clarke voce e chitarra, Liam Watts batteria e Andy Hopkins basso e backing vocals, appena maggiorenni e già star della scena indie Uk. We’ll Live and Die in These Towns è stato uno dei debutti più significativi dello scorso anno, lontano dal glam e dalle mode del momento i The Enemy hanno la union jack nel sangue e per questo ascoltando le loro canzoni balzano in mente i Manics Street Preachers, Kasabian o gli Oasis fautori di quel tipico brititsh rock che li ha fatti entrare nella storia e nel cuore degli inglesi stessi, non perché politici o patriotici ma perché raccontano con orgoglio l’Inghilterra, le sue sfaccetatture e i suoi sobborghi popolati da famiglie e da amici veri.
Tom: “E’ stato tutto così veloce! I nostri piedi non hanno ancora fatto in tempo a toccare terra, è tutto così pazzesco che ogni giorno mi sveglio e mi chiedo: “Fucking hell, what is this?”

Avete cominciato aprendo i concerti dei The Paddingtons, The Futurheads e poi Kasabian, suonare con questi nomi vi avrà aiutato parecchio, no?
Siamo stati fortunati perché queste band hanno creduto in noi chiedendoci di far loro da supporter, per noi è stata l’occasione per farci conoscere e far vedere alla gente chi siamo.

Vi chiamate The Enemy ma le vostre canzoni parlano molto d’amicizia, in Inghilterra si dice “Who need enemies when you’ve got friends”, è questo il senso del vostro nome?
Sì, noi non abbiamo tempo per avere dei nemici, ma allo stesso tempo noi siamo gli unici nemici di cui voi avete bisogno.

Ora che avete scritto un album di successo e suonato in tutto il mondo vi chiedo, è tutto come ve lo immaginavate?
E’ esattamente come lo sognavo da bambino in cameretta, uscire ogni sera, partecipare a feste incredibili dopo aver suonato di fronte ad un mucchio di persone che fanno casino e bevono e rovesciano birra, incredibile!

Il vostro suono si potrebbe descrivere come Oasis-punk, sei d’accordo?
Non ci piace essere etichettati, ma Oasis-punk mi piace, perché è un genere che non esiste, l’essere punk è un attitudine che noi abbiamo ma stà alle persone scegliere in quale categoria della loro collezione di cd metterci.

Tu cos’hai nella tua collezione di dischi?
Il primo amore musicale della mia vita sono stati i Rolling Stones poi sono arrivati gli Who che al momento credo di poter affermare siano la mia band preferita in assoluto. Poi non manca la discografia di Oasis e Verve ma l’ultimo gruppo inglese che mi ha veramente entusiasmato sono i Kasabian.

Credi che il successo sia arrivato anche perché i giovani si possono facilmente immedesimare nelle storie che raccontate?
Questa cosa mi ha un po’ scioccato, i nostri testi parlano di esperienza che abbiamo vissuto personalemente o di storie che i nostri amici stretti ci hanno raccontato, non pensavamo vi ci si potessero identificare tante persone. Molti fraintendono i nostri testi considerandoli politici, ma non lo sono, parlano della società in cui viviamo, alcune persone hanno notato riferimenti nei nostri testi di cui noi non c’eravamo nemmeno accorti.

A proposito, sta per uscire un vostro nuovo singolo It’s Not Ok e se non sbaglio è proprio una specie di tributo ai vostri amici, giusto?
Esatto! E’ un vero tributo ai nostri amici, scritto e ispirato a loro stessi, a quello che succede nelle loro vite e a cosa stanno passando nel bene e nel male. A volte mi dimentico di quanti momenti di merda abbiamo passato insieme a Coventry e di quanto siamo fortunati ad esserne usciti, ma questa canzone è un modo per dire a chi ci sta vicino, che non ci siamo dimenticati chi siamo e da dove veniamo.

Le vostre canzoni sono aggressive, epiche e melodiche allo stesso tempo, come riuscite a far convivere questi aspetti?
Con l’alchimia! Io credo che una canzone per funzionare debba avere un lato rock per far pogare i ragazzi e un lato più corale in cui si alzano al cielo le pinte di birra e si ondeggia tutti insieme. Ma abbiamo anche un lato più dark, siamo capaci di mostrarvi lati inaspetatti con una chitarra acustica, credo che ci siano alcuni episodi sopresa nell’album.

Da dove sbuca il titolo We’ll Live and Die in These Towns?
E’ una frase che qualcuno aveva scritto su un muro nella periferia di Coventry, e non può essere più veritiera.

Cosa non deve mancare mai nel tuo guardaroba?
Le Adidas Gazelle.

Lightspeed Champion


Quando nel 2005 uscì l’album di debutto dei Test Icicles “For Screening Purposes Only” nessuno poteva prevedere quello che avrebbe scatenato sul panorama musicale internazionale. Violento, acido, dance, punk, crossover e schizzofrenico, il debutto dei Test Icicles con questo intruglio sonoro folle aprì la strada a quello che nel giro di un anno venne ribattezzato nu rave. La beffa è che i Test Icicles nel giro di sei mesi si sciolsero lavandosi le mani di tutto quello che è venuto dopo di loro, ognuno ha preso la sua strada e il chitarrista Devonte “Dev” Hynes si è rifugiato ad Omaha in Nebrasca a casa dei Bright Eyes. Quì sotto lo pseudonimo Lightspeed Champion ha composto un delizioso e intimo disco folk Falling Off the Lavender Bridge. A soli ventidue anni Dav è un giovane genio della scena indie destinato a regalarci grandi cose, basta vederlo sul palco raccontare una delle sue storielle con fare giocoso e spontaneo preferendo suonare cover o pezzi scritti la sera prima piuttosto delle canzoni presenti sul disco appena pubblicato. Genialità innocente e genuina.

Come è nata la musica di Lightspeed Champion?
Il fatto è che io scrivo musica sempre, non si tratta di un genere o dal partire da un’idea, mi posso confrontare con tutto, non mi serve partire da uno spunto ma relazionarmi a me stesso ed esprimermi in quanti più modi il mio essere sente la necessità. Qualcuno ha scritto di me che non avrei mai più composto canzoni rumorose: Gesu! Non c’è niente di più falso. Potrei pubblicare un album punk o electro domani se volessi, la musica per me è come respirare, non mi sono mai mosso per tentativi è qualcosa che mi viene naturale fare. Probabilmente il mio prossimo album sarà diverso, ma non sarà un cambiamento intenzionale.

Cosa ti ha spinto ad Omaha, casa dell’etichetta indie Saddle Creek, a registrare l’album?
Ho spedito un mio cd con alcuni demo a Mike Mogis dei Bright Eyes e lui mi ha chiamato, dopo aver parlato per alcuni giorni al telefono mi ha invitato nel suo studio ad Omaha. Mike ha prodotto alcuni dei miei album preferiti di sempre tra cui Danse Macabre dei The Faint e The Ugly Organ dei Cursive. Credo che Mike sia stato in grado di creare un suo suono pur lavorando con generi completamente diversi tra loro, per questo mi piace il suo lavoro. Omaha è un posto incredibilmente divertente, tutti amano la musica e io voglio essere circondato da persone così.

I Test Icicles hanno dato il via inconsapevolmente al fenomeno nu rave. Ti senti responsabile dell’accaduto?
Tutti mi guardano in modo strano ma non è stata colpa mia! Forse solo un pochino…la cosa divertente è che io no ho mai ascoltato musica rave in vita mia ed era l’ultima cosa che avevamo in mente quando scrivevamo canzoni.

Credo che il vero colpevole sia il video di Circle Square Triangle, con i club kids e i fumogeni fluo rosa…
Sì hai ragione, è tutta colpa sua, avremmo dovuto usare del fuoco invece del fumo rosa.

Sembra che tu sia amico di tutti, band tra cui i Klaxons e The Horrors hanno fatto propaganda al tuo disco mandando dei bulletin su MySpace, hai conquistato tutti!
Cool! Non lo sapevo è incredibile, sono davvero dei ragazzi carini, ma siamo molto amici, viviamo nella stessa strada e ci vediamo ogni giorno.

Per presentare l’uscita dell’album hai fatto un secret gig insieme ad Alex Turner degli Artic Monkeys in cui avete eseguito solo cover, confermi?
Alex è un mio caro amico, avevo bookkato il concerto un mese fa con il nome Pan Lovin Criminal ma senza sapere di preciso cosa avrei fatto. Ho chiamato alcuni amici tra cui la batterista degli ipso facto e il bassista dei Semifinalists e insieme ad Alex abbiamo suonato Reptilia degli Strokes, Slow Hands degli Interpol, Get Free dei Vines e C’mon C’mon dei Von Bondies.

Avete scelto degli indie anthem piuttosto recenti quando solitamente tutti tendono a fare noiose cover di pezzi storici…
Il mio periodo musicale indie preferito è quello che va dal 2001 al 2004 perché era eccitante e fresco e poi io amo fare cover. Non che non mi piaccia suonare i miei pezzi, ma è che mi annoio in fretta e quindi magari preferisco suonare canzoni nuove che non sono su disco o eseguire pezzi altrui.

Il Lavender Bridge del titolo è un posto reale?
No. E’ un ponte immaginario che collega la notte al mattino, soffro d’insonnia ed è un vero problema perché dormo tre ore a notte, per questo è come se cadessi dal ponte. Quando ero piccolo avevo una rana imbottita di lavanda che abbracciavo per dormire, mi calmava. (Dev fa un grosso sbadiglio).
Non è assurdo che mentre ti racconto dei miei problemi d’insonnia sbadiglio? (scoppia una risata).

Nella copertina del disco tieni in mano un coniglio nero, nel singolo un gallo, nel video un gatto. Hai mai cantato le tue canzoni ai tuoi animali per capire se sono valide?
Buona idea ma purtroppo non ne ho nessuno! Mi piacerebbe avere un animale. Vorrei un cane, un gatto o un coniglio. Ma sono sempre in giro quindi per ora è impossibile.

Perché preferisci suonare di fronte ad un pubblico di ragazzini piuttosto che adulti?
Sì perché i ragazzi sono meno scettici e se dicono che gli piace una cosa è perché lo pensano veramente e la abbracciano nella sua totalità facendotelo vedere. E poi non si pongono troppe domande e prendono la cosa per quello che è.

Ti ho visto suonare al Rocket con i Test Icicles e ricordo che avete distrutto mezzo locale, ieri hai suonato un delizioso set acustico e ti sei dimostrato un vero entertainer. Sembra che tu sia cambiato insieme alla tua musica, è così?
Wow… non credo di essere cambiato affatto, è solo un modo diverso di presentare la mai musica. Una settimana fa ho fatto un concerto a Tokyo in cui ho suonato solo distorsioni con la chitarra elettrica per tutto il concerto, è stato molto selvaggio e divertente. Dipende molto dalla situazione ma sono sempre io, sono spontaneo.

So che stai per pubblicare un fumetto collegato concettualmente alle canzoni dell’album, quando uscirà?
E’ finito ma non ha ancora una data di pubblicazione, io amo disegnare e mi piace che ogni mia canzone si possa trasformare in un fumetto. All’inizio volevo inserirlo nell’album ma poi ho pensato che avrebbe distratto le persone dalla musica.

Pensi davvero che The Strokes sono la miglior band del mondo?
Sì, First Impression On Heart dei The Strokes e Pinkerton dei Weezer sono i miei due album preferiti di sempre.

Goldfrapp


Un grande albero con inciso sulla corteccia il numero sette. Nasce da questo sogno fatto da Alison, Seventh Tree, il quarto album dei Goldfrapp che si sbarazzano d’elettronica e lustrini, sesso e morbosità in favore della semplicità. Canzoni nate con in mente una chitarra acustica e con l’idea di poterle riproporre attorno ad un fuoco, come si fa quando si va in campeggio. Volendo è un po’ un ritorno alle origini per il duo composto da Alison Goldfrapp e Will Gregory, ma se Felt Mountain il loro primo album era dark, onirico e ambizioso, Seventh Tree suona scarno, solare, bucolico a tratti ironico.

Com’è successo che avete abbandonato l’electro glam di Black Cherry e Supernature in favore di sonorità acustiche e bucoliche?
Will: Dopo il tour di Supernature le nostre teste stavano scoppiando, ci siamo resi conto che avevamo bisogno di un po’ di pace. Ci siamo ritrovati in una stanza vuota e abbiamo iniziato a scrivere le nuove canzoni con una pace ritrovata, con un nuovo entusiasmo.
Alison: La mia voce ha fatto da tramite, è lei che ci ha guidato. Abbiamo sempre cercato di evolvere o trasformare il nostro suono album dopo album ma i temi che affrontiamo e il tipo di melodie che cerchiamo di comporre rendono riconoscibile il nostro lavoro.

Tutti i vostri album hanno un riferimento alla natura nel titolo, come conciliate quest’aspetto con la tecnologia sempre presente nei vostri lavori?
A: Cercare di conciliare questi due mondi è la principale fonte del nostro divertimento! Credo che quest’album sia fortemente influenzato da film sci-fi come Silent Running, (film del 1972 tradotto in italiano 2002:La Seconda Odissea n.d.g.), film che si pongono domande su cosa sia la natura e il naturale e sul futuro che ci attende. Abbiamo provato anche ad usare strumenti analogici per cercare di avvicinarci alla natura ma è stato un’esperimento fallito in gran parte.

E’ vero che quando avete iniziato a lavorare all’album pensavate ad un suono psichedelico?
W: Nei lavori precedenti abbiamo sempre cercato di sfuggire alla chitarra, anche perché non sappiamo suonarla, ma dopo il frastuono e i suoni saturi dei nostri album abbiamo sentito la necessità di avvicinarci a questo tipo di sonorità. Abbiamo cercato di spingere il nostro suono attraverso una sorta di filtro minimalista. All’inizio cercavamo di dirigere la nostra musica verso la psichedelia ma più cercavamo di spingerci verso questa direzione e più ci rendevamo conto di non saper minimamente cosa voleva dire psichedelico. Così abbiamo fatto una ricerca e sul percorso siamo rimasti affascinati dalla musica di Nick Drake e di Minnie Riperton e ci siamo mossi in quella direzione. A nostro modo abbiamo creato un album acustico psichedelico.

Per la prima volta vi siete serviti di un produttore e la scelta è caduta su Flood, cosa pensate abbia portato nella vostra musica?
A: Quando Flood è arrivato in studio avevamo già tutte le canzoni pronte, il suono era piuttosto definito, Flood è arrivato, ha suonato e aggiunto alcune parti, ma più che altro ci ha consigliato, ha portato coerenza e ci ha impedito di sognare troppo ad occhi aperti ma senza mai imporsi troppo.

Alison hai detto di aver visto in sogno un albero con il numero sette inciso sulla sua corteccia, ma che tipo di sogno era?
Era un sogno bellissimo, pieno di pace, molto rassicurante anche perché mi trovavo in una SPA quando l’ho sognato. Sono state le altre donne della SPA a consigliarmi di chiamare così l’album!

Nella copertina del singolo A&E sei vestita da Pierrot mentre nell’album hai un look da pirata, c’è un concept dietro al nuovo artwork?
A: L’idea è quella di una bambina che trova in soffitta un vecchio baule pieno di costumi e se li mette anche se gli stanno grandi e ci gioca.
W: C’è una canzone nell’album che s’intitola Clown il cui testo dice: “Only clowns will play with your balloons” il concetto dell’artwork è partito da lì, una sorta d’aura oscura ma con un’innocenza di fondo.
A: Ma credo che dovremmo fare un po’ di psicanalisi per capire meglio noi stessi e il nostro lavoro.

Duffy


Duffy ha soli ventitre anni è la nuova promessa del pop inglese, presentata come la versione “clean” di Amy Winehouse in realtà la giovane ha ben poco da condividere con la regina del rehab. Mentre Amy è grezza, schietta con quell’attitudine da fancazzista che quando canta sembra voler dire “Cosa ci sto facendo qua io?” Duffy è solare, dolce e passionale e quando canta ci mette l’anima. Non sto preferendo l’una all’altra semplicemente va evitato il confronto. Quello di ieri sera al Pigalle Cafè di Piccadilly Circus a Londra, era il terzo concerto della sua vita e se pur ancora un po’ timida Duffy di fronte ad una platea sold out, in cui si celavano insospettabili accorsi a vedere questa next big thing tra cui Faris leader dei the Horrors, ha saputo stregare tutti con la sua voce e le atmosfere soul di Rockferry album di debutto prodotto da Bernard Butler, storico membro fondatore degli Suede.

Hai una voce incredibile, quando hai scoperto di avere queste doti e di voler fare la cantante?
Lo sto ancora scoprendo! E’ tutto nuovo per me e mi ci devo ancora abituare, sono curiosa delle reazioni che la gente ha di fronte alla mia voce ma sto ancora scoprendo da dove vengo, dove voglio andare.

Come sei venuta a contatto con la musica soul?
Amo le canzoni romantiche e sono sempre stata una persona molto sensibile e delicata, è stato difficile per me trovare la giusta scatola che mi contenesse, già da piccola mi sentivo diversa, ero una piccola donna più che una bambina e la musica soul mi ha fatto scoprire e capire chi sono. E’ stato come incontrare un’amica con il mio stesso punto di vista sul mondo.

Come è stato lavorare con Bernard Butler?
Grandioso perché mi ha lasciato la libertà di fare quello che volevo, quando sono entrata in studio i pezzi li avevo praticamente finiti, con Bernard è stato come lavorare con un amico con cui puoi ridere, essere spontaneo e scambiarti consigli. Non conoscevo gli Suede e quando l’ho incontrato non sapevo chi fosse, ero una bambina negli anni ’90 ma sapevo che sono stati una band importante per il panorama britannico.

C’è un'altra collaborazione che ti lega alla scena indie brit, hai cantato nell’album See You in the Morning dei Mint Royale, com’è accaduto che una ragazza sconosciuta sia finita a cantare in questo disco?
E’ successo che il loro manager aveva sentito dei miei demo e così li incontrai ad un festival nel Galles, ho cantato diversi brani per loro ma nel disco ne sono stati usati tre, mi chiesero anche di andare in tour con loro ma ero troppo giovane e inesperta, sentivo che non era ancora giunto il mio momento. Ricordo che non avevo soldi e fu un’opportunità grandiosa.

L’album si intitola Rockferry, si riferisce a un luogo reale o immaginario?
Credo di aver già affrontato diversi rischi nonostante la mia carriera sia appena iniziata, volevo che la gente capisse il mio mondo che io stessa sto ancora cercando di capire, Rockferry è stato il mio biglietto da visita, il mio primo singolo pubblicato su 45 giri in edizione limitata e tra tutte le canzoni che avrei potuto scegliere ho pescato forse la più rischiosa. Nell’album ci sono canzoni molto più immediate di Rockferry che è un pezzo senza ritornello, malinconico, non che la prima canzone che ho scritto. E’ un pezzo che ha provocato una mia battagalia interiore e che mette a nudo lo stato d’animo con cui è stato concepito, è un punto di partenza ma anche di arrivo, è il realizzarsi, questo è il significato che la parola Rockferry ha per me.

Quando canti dal vivo trasmetti una passione incredibile, non ci sono filtri tra te e il tuo pubblico, sei vera ed è una qualità che possiedono in pochi oggi, non trovi?
Grazie, io non sarei in grado di dare un giudizio del genere su me stessa. Era il mio terzo concerto, dici giorni fa continuavo a piangere per l’agitazione, ero una maschera nera di trucco sbavato, ma quando sono sul palco mi rendo conto che è l’unico posto dove mi sento a mio agio anche se devo ancora acquistare la confidenza.

In effetti durante il concerto quando cantavi avevi una voce forte e incredibile mentre quando parlavi al pubblico sussurravi appena, ma è anche questo che ti rende vera…
Sarebbe facile per me recitare una parte e dire con fermezza “Ciao a tutti, benvenuti al mio show” ma così facendo prenderei in giro per prima me stessa. Non mi sentirei di recitare una parte soprattutto con il genere di musica che faccio che si basa sulle emozioni e non sulle menzogne.

Qual è l’artista che ti ha ispirato più di ogni altro?
Bettye Swann, ha una voce incredibile, non smetterei mai di ascoltarla, nelle sue canzoni ci sono molti messaggi subliminali di natura sociale e politica, era una donna coraggiosa che ha avuto il coraggio di prendere una posizione, i suoi dischi sono come un tesoro per me.

Cosa ti piace invece del panorama attuale?
Bat For Lashes è incredibile e poi c’è questo gruppo nuovo americano che si chiama Black Kids prodotto da Butler il cui album uscirà per l’estate, un mix tra Joy Division, Arcade Fire e David Bowie davvero affascinante!

Disco Drive


I Disco Drive sono architetti del suono, costruiscono strato dopo strato canzoni che non dovendo sostenere nulla di materiale cambiano forma, spessore, prospettiva quando meno te lo aspetti con un risultato finale composto da fondamenta punk-funk, che sorreggono strutture metal, disco, kitchs.Si chiama Things To Do Today il secondo album di questo indie power trio, che concerto dopo concerto si è fatto le ossa all’estero per potersi guadagnare la meritata attenzione in Italia, perché sorpresa!: Alessio, Jacopo e Matteo sono di Torino, non ve lo aspettavate vero?...

Attorno alla release di quest’album c’era una notevole attesa, come vi siete approciati a Things To Do Today rispetto al precedente album What’s Wrong With You, People?
Jacopo: Innanzi tutto quando è uscito il primo album nel 2005 non ci aspettava proprio nessuno e non sapevamo nemmeno se avremmo trovato un’etichetta.
Alessio: Questa volta avevamo un apparato alle spalle e le canzoni sono state affrontate con la consapevolezza di fare un album quindi con meno ingenuità.
J: L’intenzione sin dall’inizio è stata quella di fare qualcosa di diverso dal nostro primo album, abbiamo affrontato delle scelte e scritto canzoni per il disco senza mai averle suonate prima dal vivo, un processo particolare per noi che solitamente scriviamo, suoniamo, aggiustiamo e poi decidiamo se mettere il pezzo sul disco o no.

Però paradossalmente quest’album è molto vicino alla vostra dimensione live.
J: Dopo il primo album tutti ci dicevano che dal vivo eravamo meglio rispetto al disco quindi abbiamo volutamente cercato di trasportare l’atmosfera e l’approcio live nelle canzoni, anche perché tutti e tre amiamo molto di più suonare dal vivo piuttosto che chiuderci in studio a registrare.
A: Il primo album aveva una produzione più levigata da studio mentre questo è più caldo, più grezzo.
J: Io credo che lo studio sia di partenza un freno inibitore che t’impedisce di ricreare l’effetto del live, noi poi dal vivo improvvisiamo molto, cosa che su disco non si può fare.

Quindi di base le vostre canzoni nascono improvvisando?
J: Diciamo che ci sono stati diversi approci, ma la maggior parte dei pezzi li scrive Alessio dall’inizio alla fine, altri invece nascono da divagazioni/improvvisazioni in sala prove o anche live. Questo album è stato metà e metà.
A: Inoltre per quest’album ad un certo punto siamo rimasti soli io e Jacopo, Mauro il nostro bassista non era ancora dei nostri e metà dei pezzi sono nati da due batterie più base mentre gli altri li ho composti io in cameretta.

La cameretta è tornata molto di moda ultimamente…
A: Era dagli anni del punk rock quando componevo canzoni con un quattro tracce a cassetta che non componevo in cameretta! Mi sono accorto che ti basta un computer e Garage Band per fare mille cose velocemente. Questo procedimento permettere a tutti di comporre canzoni e ha fatto tornare cool questo lato casalingo della musica.
J: Molte persone dicono che Garage Band fa schifo ma non è vero basta trovare il giusto metodo per usarlo, molta gente ci chiede che microfoni usiamo o come abbiamo ottenuto certi effetti e quando rispondo con Garage Band e che il microfono è quello di un Mac rimangono spiazzati. Ma applicandosi con passione si ottengono questi risultati.

Avete suonato più volte in Inghilterra, com’è rispetto all’Italia e come siete recepiti dal pubblico?
A: E’ faticoso, estremamente faticoso!
J: E’ totalmente diverso ma ora che in Italia siamo presi più in considerzione tornare a suonare in Inghilterra è difficile perché il trattamento è uguale a zero, niente cibo, niente albergo, pochi soldi.Tutti si aspettano che in Inghilterra, patria del rock, le band siano trattate con un occhio di riguardo ma invece ce ne sono così tante che ti trattano con sufficienza.
A: Abbiamo capito perché molte band importanti italiane non sono interessate ad andare asuonare all’estero, e cioè perchè qua si sta meglio. In un certo senso suonare in Inghilterra è un po’ come stare in vetrina, ma è il prezzo da pagare per poter suonare nei locali fighi davanti alla gente giusta.

Siete descritti come i portavoce del punk-funk italiano, ma ascoltando il vostro album mi sembra un po’ riduttivo, ci sono molte più sfumature nella vostra musica, che dite?
J: Noi abbiamo avuto la sfortuna che il nostro album è uscito un anno dopo di quello dei Rapture anche se era pronto da un pezzo ma non avevamo un’etichetta e pensa che i Rapture non li conoscevamo nemmeno. In realtà abbiamo le stesse influenze e la stessa attitudine, ma in questo nuovo album siamo partiti da lì per andare altrove.
A: Sì, ci piace il punk e anche il funk ma trovo sia riduttivo descrivere il nostro album solo come punk-funk basta vedere la fine che hanno fatto gli stessi Rapture che si sono autocopiati virando verso il mainstream con scarsi risultati.

A chi vorreste essere paragonati?
A: Ai Fugazi, ai P.I.L., alla scena di Washington, ai Gang Of Four, ci sentiamo molto vicino ai Liars come modo di vedere e intendere la musica, l’ultimo disco non mi ha fatto impazzire ma dal vivo sono una bomba. Siamo più New York e meno Londra.