20 maggio 2008

The Niro


Anche se si definisce “An Ordinary Man” come titola l’e.p. che ha preceduto l’omonimo album, The Niro d’ordinario non ha proprio nulla, soprattutto se paragonato alla scena musicale italiana che lo circonda. Cantautore romano, ha stupito chiunque lo ha visto suonare dal vivo con un appeal seducente e canzoni cantate rigorosamente in inglese. Quello di The Niro è un mondo in bianco e nero ma ricco di sfumature, malinconico, viscerale e ambizioso, le sue canzoni scalfiscono il cuore e lacerano l’anima, la sua voce morbida ma tagliente lo ha fatto accostare a cantautori internazionali quali Jeff Buckley o Elliot Smith. Da tempo la scena cantautoriale italiana aspettava il suo outsider, ora c’è e si chiama The Niro.

Come nasce artisticamente The Niro?
The Niro inizia a suonare molto piccolo, mio padre era un batterista, smise di suonare la batteria negli anni ’70 e la lasciò in camera mia, quindi iniziai a scoprirla molto piccolo e a sette anni la suonavo. Verso i tredici anni inizio a suonare chitarra e basso ma la batteria rimane il mio approccio vero alla musica tanto che nelle prime band in cui suono faccio il batterista. Poi la voglia di scrivere canzoni mie prevale e quindi torno alla chitarra, lascio le band in cui militavo all’epoca ed estrapolando membri da ciascuna formo la mia squadra e insieme decidiamo di chiamarci The Niro. Il progetto dura circa due anni ma nel 2004 mi trovo da solo e mi tengo il nome proseguendo per la mia strada.

The Niro è un nome geniale, come ti è venuto?
Tutti quelli che ascoltano la mai musica mi dicono da sempre che ha un’atmosfera molto cinematica, così ho cominciato a pensare nomi e riferimenti al cinema e alla fine durante un concerto dei No Twist a Roma, in cui mi stavo annoiando da morire, parlando di questa ipotesi con i miei compagni di allora e passando per i vari Monroe e Bogart è uscito il nome The Niro.

Ascoltando la tua musica i primi riferimenti che compaiono sono Jeff Buckley, i vecchi Radiohead e in un secondo momento molto brit pop. Sei d’accordo?
Allora, quello di Jeff Buckley non è un riferimento voluto, io sono convinto che più si ascolta l’album e più questo paragone andrà scemando. Jeff Buckley l’ho scoperto dopo che tutti hanno cominciato a paragonarmi a lui, prima non lo conoscevo se non di nome. Ora lo adoro ma sono più fan del padre Tim, Lorca e Starsailor sono due tra i miei dischi preferiti di sempre, la sperimentazione e la follia mi hanno sempre affascinato, anche più del mondo cantautoriale che mi è arrivato per accostamenti con Nick Drake o Morrissey.Io sono depresso, triste e malinconico e questa non è una prerogativa di pochi. Per quanto mi riguarda io sono cresciuto con il metal degli Iron Maidem, poi è arrivata la progressive e poi il brit pop, mi fa piacere se hai sentito questo riferimento.

Oggi chi ti entusiasma?
Sufjan Steven e i Mars Volta, due artisti che sono arrivati al successo facendo quel che gli pare. Mi piace chi compone senza seguire canoni prestabiliti risultando diversi ma non in modo forzato. Per quanto invece riguarda me stesso, mi piace la forma canzone ma con il particolare.

Hai aperto i concerti di Badly Drawn Boy e Amy Winehouse, com’è stato?
Fantastico. Una forte emozione che mi ha dato una grande visibilità, soprattutto suonare per Badly Drawn Boy un artista che stimo molto.

Sei italiano, canti in inglese e il tuo e.p. An Ordinary Man è in cima alle classifiche, come te lo spieghi?
Non me lo spiego!Sono in classifica in compagnia di Rihanna e Lenny Kravitz e mi fa strano soprattutto perché al momento sono l’unico italiano presente nelle quindici posizioni dei singoli con un e.p. che è tutto fuorchè commerciale. Questo mi fa pensare che forse l’Italia è pronta per qualcosa di diverso se mi ha fatto arrivare al terzo posto, in qualche modo credo di aver abbattuto una barriera anche se preferisco non sapere quante copie ho venduto considerando quanti dischi si vendono oggi, magari ho venduto tre copie e sono finito al terzo posto!

Cosa ti ha spinto a cantare in inglese?
Ho cominciato a cantare in inglese, poi mentre lavoravo come giornalista, scrivevo cronaca nera per un quotidiano a Roma, mi proposero di cominciare scrivere in italiano, accettai ma le mie canzoni iniziarono a diventare retoriche, il mio modo di cantare è molto lungo e in italiano diventava pesante. L’italiano parlato è bellissimo, è poetico e melodico, ma cantato per me è come una minestra buona ma troppo saporita. Poi in italiano non riesco ad esprimermi e non mi piace scegliere compromessi, quindi ho proseguito con l’inglese.

La malinconia è una prerogativa delle tue canzoni, cosa ispira di più il tuo lavoro?
Mi sono accorto che più cresco e più i miei testi parlano d’addii e di donne che mi hanno abbandonato, però mi piace anche inventare storie fantasticando su fatti reali perchè spesso la realtà supera la fantasia.

Come descriveresti il tuo mondo in bianco e nero?
Un mondo sognante la cui base è fondata su di una malinconia dalle mille sfaccettaure che si assaporano ascolto dopo ascolto. Non mi piacciono le cose immediate, preferisco la scoperta, il rivelarsi, lo stupire.
Sono molto severo sulla selezione dei miei pezzi, li ascolto almeno cento volte prima di decidere se tenerli o scartarli e se una canzone alla novantanovesima volta non mi convince la butto via.

Raccontaci un segreto…
La notte prendo la macchina e da solo inizio a vagare senza meta per le strade di Roma ascoltando musica, solo così riesco veramente a capire se un album mi piace, è un test che anche ogni mio pezzo deve superare.

Quando capisci se un pezzo è pronto per finire su disco?
Quando lo ascolto di giorno e mi piace e poi lo riascolto la notte e mi fa impazzire.

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