2 maggio 2009

WHITE LIES


Che viviamo in tempi bui lo abbiamo capito da un pezzo e se prima s’intravedeva una fioca luce di speranza in fondo al tunnel, oggi ci troviamo di fronte ad uno fondo nero tanto che allungando le mani non riusciamo a toccare nulla, ci viene la nause, ci gira la testa, ci sembra di cadere restando in piedi. Accusati d’essere troppo giovani e precocemente disperati i White Lies hanno intrappolato l’Inghilterra nella loro oscurità e lei li ha premiati elevandoli al primo posto delle sue charts, nessuno se l’aspettava ma questo trio di Londra ha contagiato tutta la nazione con i suoi testi disperati che parlano d’amore, morte e solitudine. A guardarli sembra strano che questi tre ragazzetti poco più che vent’enni siano in grado di affrontare tematiche così cupe in modo così toccante e diretto, solitamente sono la maturità e l’esperienza a generare testi così sofferti e disturbati. Tutti se ne sono accorti tanto che, oltre a godersi il loro successo, Harry McVeigh, voce, Charles Cave autore dei testi e bassista e Jack Lawrence-Brown, batterista, devono difendersi da chi li accusa d’essere degli emuli di Echo and the Bunnyman, Talking Heads e Joy Division anche perché prima di chiamarsi White Lies erano i Fear Of Flying e suonavano come i Maximo Park. Veri o costruiti? Le vendite di To Loose My Life… parlano da sole, i concerti sold-out pure e dopo aver visto l’intensità con cui suonano dal vivo noi gli crediamo. Siamo andati negli antri gotici di Oxford e spingendoci dentro ad un cimitero della vecchia Inghilterra abbiamo chiesto ai diretti interessati di raccontarci la verità. Forse non dovremmo credere ad un gruppo che ha la parola menzogna scritta nel suo nome, ma una bugia innocente non ha mai fatto male a nessuno, o no?

Togliamoci subito questo sassolino, ci sono molti pettegolezzi che circolano su di voi, com’è successo che una band post punk che si faceva chiamare Fear Of Flying si è convertita all’indie dark dei White Lies?
Harry: Intanto quando abbiamo formato i Fear Of Flying avevamo quindici anni, e sono proprio quelli gli anni in cui si cambia maggiormente come testa e come idee, per questo oggi che ne abbiamo diciannove siamo così diversi, la sicurezza ha preso il posto dell’indecisione e attraverso uno sbaglio abbiamo capito chi volevamo essere. Senza i Fear Of Flying non sarebbero potuti esserci i White Lies, perché è grazie a loro che abbiamo imparato ad acquisire confidenza con noi e con i nostri strumenti esibendoci per la prima volta di fronte a un pubblico, sono stati parte essenziale del nostro processo creativo. Con i White Lies sin dall’iniziamo ci è stato chiaro nella mente chi siamo e che tipo di musica vogliamo fare, per la prima volta ci siamo sentiti liberi d’essere noi stessi.
Jack: E’ come se con la band precedente stessimo in qualche modo sforzandoci d’essere qualcun altro mentre oggi siamo noi stessi.

Secondo sassolino, Charles, sei molto giovane e i tuoi testi hanno un forte legame con la morte, hai già dovuto confrontarti con lei o è la tua visione della vita?
Non ho avuto esperienza particolari, almeno non più di quante possa averne un qualunque vent’enne, nei testi viene citata molto spesso la morte ma non necessariamente vanno interpretati come reali, sono metafore che fanno riferimento alla perdita in generale, perché quando perdi un’amore o un’amicizia ti senti come morto anche se non lo sei. In un certo senso la persona che prima ti stava a fianco è come se fosse morta perché non farà più parte della tua vita.

Io credo che i tuoi testi siano molto onesti, inoltre mi piace come ti prendi cura di ogni singolo dettaglio anche quando parli di sangue. Sono curioso di sapere se la letteratura ha influenzato il tuo modo di scrivere…
Non al momento, ho studiato letteratura a scuola ma non leggo molto. I miei testi nascono dalla mia immaginazione, non tendo molto a pensare quando scrivo, fluiscono dai miei pensieri molto velocemente per questo ti ringrazio d’averli definiti onesti. Io amo scrivere, ho sempre inventato storie sin da piccolo per questo mi viene naturale trasformare immagini in parole.

Si possono riconsocere molte influenze nella vostra musica: Joy Division, Echo & The Bunnyman, OMD, Talking Heads, Depeche Mode, Duran Duran, Interpol, Editors, come riuscite a mantenere intatta la vostra identità?
Harry: Come abbiamo detto prima stiamo facendo quello che vogliamo quindi siamo noi stessi. Il nostro obiettivo è quello di fare musica come non è mai stata fatta prima cercando di non copiare nessuno, nonostante siamo d’accordo con le influenze da te citate. Credo che la nostra sia un mix di tutta la musica che ci ha accompagnato da quando abbiamo acquisito la ragione a oggi. I Talking Heads sono stati una delle band che ho ascoltato di più da bambino.

Charles, esiste secondo te l’amore senza la sofferenza?
Ok, questa è tosta… Ma devo rispondere no, se ami qualcuno veramente è perché in questa persona vedi qualcosa di speciale che sai che nessun’altro possiede e vuoi che sia tua per sempre. Sei conscio di quanto fortunato sei ad averla e a volta hai paura che anche qualcun altro la vorrebbe e così subentra la paura di perderla. Quindi credo che se ami davvero sai anche cosciente della sofferenza che potresti dover affrontare. E’ la nostra natura.

Harry hai una voce nitida e così profonda rara da trovare, quando l’hai scoperta?
Non ho mai cantanto ne a scuola, ne in un coro, ma ho sempre cantato sopra le canzoni che sentivo alla radio. La mia voce è così, non è forzata quindi fondamentalmente è un dono con cui sono nato.

Forse proprio perché mi ricorda la musica con cui sono cresciuto, ammetto d’essermi innamorato del vostro album a primo ascolto. Mi piacciono le canzoni che si possono cantare e anche ballare e voi ne avete molte nel vostro album, raggiungere questo scopo era uno dei vostri obiettivi?
Jack: Non realmente, non abbiamo mai ascoltato musica dance, nessuno di noi, ma non ci vergognamo nel dire che ci piace il pop e che lo abbiamo inserito nelle nostre canzoni, anche i Depeche Mode sono un’incredibile pop band no? Credo che il nostro obiettivo fosse quello di creare canzoni che si possono sentire anche alla radio grazie a melodie efficaci.

Come state affrontando il successo? Avete debuttato al numero uno in Inghilterra, non è un onore che capita a molti…
Harry: Siamo ancora sotto shock! Siamo lusingati e onorati ma crediamo fortemente nella qualità del nostro disco perché ci è costato molto lavoro e fatica. Questo disco è un grande momento d’orgoglio nella mia vita, non sono mai stato così contento in vita mia.
Jack: Questo successo ci darà l’opportunità di fare qualsiasi cosa vorremo in futuro, è una grande opportunità che ci aprirà molte porte.

Cosa state ascoltando sul tour bus?
Jack: School Of Seven Bells.
Harry: Tv On The Radio.
Charles: Sister Ray.

GLASVEGAS



Si dice che la notte porta consiglio e a volte è vero, i Galsvegas il loro album lo hanno creato avvolti dal buio, li immagino in un basement umido con l’odore di muffa, la moquette macchiata e delle vecchie tende di velluto damascate, proprio come quest’ultime la loro musica ti avvolge, ti riscalda, ma se le strofini ti mette addoso un brivido. James Allan il leader della band era un giocatore di football professionista con una carriera davanti e un’infanzia difficile alle spalle, carattere volubile come il cielo della sua Scozia, si apre e si chiude a tempo di musica, look total black, occhiale scuro, ciuffo anni ’50, e una mano che quando si mette all’opera scrive poemi che si trasformano in canzoni. Le origini prima di tutto, la controversa scelta di cantare con l’incomprensibile accento della sua Glasgow che svetta nel nome della band, e canzoni che nascono da un folle amore per le produzioni di Phil Spector accomunate da riverberi e testi noir che arrivano al cuore e ce lo crepano, sciolgono e riscaldano. Sono stati definiti la band più grande d’Inghilterra e non ho niente da obiettare, questo è il miglior debutto dagli Arctic Monkeys a oggi. Quattro ragazzi a metà dei loro vent’anni ognuno con una spiccata personalità oltre a James che appare un mix tra James Dean e Robert Smith, c’è il cugino chitarrista Rab Allan con cui ha inziato a suonare in cantina, Paul Donoghue al basso con il suo irresistibile sorriso senza dente alla Winehouse, e infine la più buffa e simpatica batterista che si sia mai vista, Caroline McKay commessa di un videonoleggio reclutata nella band da James perchè gli sembrava appena uscita da un film di Fellini, e prima d’allora non aveva mai suonato uno strumento in vita sua. Interessante approccio alla musica, per questo abbiamo chiacchierato con lei poco prima che salisse sul palco di uno show sold-out a Londra.

Ciao Caroline, mi racconti come ti sei unita ai Glasvegas?
Certo! Lavoravo in un negozio che vendeva dvd e apparecchiature elettroniche, James ci veniva spesso ma non comperava mai nulla… così ho cominciato a suggerirgli articoli che sarebbero potuti interessargli e siamo divenuti amici. Non molto tempo dopo mi ha introdotto a Robert e Rab, abbiamo cominciato a frequentarci, e loro sono diventati ospiti fissi a casa mia. Passavamo ore sul mio divano ad ascoltare vecchi dischi e ricordo che un giorno James mi chiese se volevo unirmi alla loro band. Io dissi: cosa potrò mai fare nella vostra band se non canto e non so suonare? Lui mi rispose: Ti vedi come batterista? E così sono entrata a far parte dei Glasvegas come batterista.

E’ vero che far parte di una band era l’ultima cosa che avresti mai voluto fare?
Sì, non avevo nessuna aspirazione nel fare quello che sto facendo, lo vedevo solo come un divertimento ma ora è un lavoro.

Quindi oggi hai cambiato idea?
No! Ci sono ancora dei momenti i cui mi chiedo: Che diavolo ci sto facendo qui! Ma è incredibile e siamo delle persone davvero fortunate ad essere nella posizione in cui ci troviamo oggi.

Mesi prima che il vostro debutto uscisse eravate circondati da un alone di hype, ma devo dirti che una volta sentito il disco ho dimenticato ogni diceria sul vostro conto e l’ho amato lasciandomi sorprendere canzone dopo canzone…
Buono. Vedi l’unica aspettativa che noi abbiamo è quella che pretendiamo da noi stessi, sia come individui che come band, quello che le persone vedono al di fuori non ci colpisce direttamente. E’ bellissimo leggere ottime critiche e parlare con gente entusiasta della nostra musica ma c’è anche il lato opposto, ci sono anche persone che dicono cose cattive su di noi ed è normale, per questo non prestiamo troppa attenzione a nessuna delle due parti o ci troveremmo in mezzo ad una crisi.

Poesia e melodia sono gli ingredienti segreti dei Glasvegas?
James è un grande liricista e credo che la bellezza dei suoi testi stia nell’onesta con cui li scrive e nel modo in cui è capace di osservare la vita di tutti i giorni trasportandola su carta, in modo così vero e umano. Uno dei nostri punti forti è che la gente può identificarsi nei nostri testi perché parlano di esperienze che prima o poi tutti dovremo affrontare nella vita o lo abbiamo gia fatto, James è unico nel descrivere la vulnerabilità umana e le sue emozioni.

Glasvegas è solo un gioco di parole o un nome che vuole sottolineare le vostre radici?
Non ci vergognamo di essere di Glascow ne tanto meno d’esser scozzesi, questo è il motivo per cui James canta nel modo in cui canta, con un forte accento locale, non volevamo un nome tipo, non so, the dark vampire perché non volevamo essere catalogati e chiusi in una scatola. Glasvegas è un nome che suona dolce e privato allo stesso tempo.

E’ vero che James è un fan degli album di Natale e ve li fa ascoltare tutto l’anno?
Sì, le sue preferite sono le canzoni di Natale di Phil Spector.

Così lo scorso Natale avete fatto uscire A Snowflake Fell (And It Felt Like a Kiss) un e.p. con cinque pezzi nuovi e la cover di Silent Night che avete registrato con un coro in una chiesa in Transilvania, com’è stato?
Incredibile. Non avevamo fatto ricerca per il coro, ma quando siamo entrati in chiesa e li abbiamo sentiti cantare è stata un’esperianze magica, erano così dotati, sembravano angeli caduti dal cielo e con la scenario della cattedrale è stato davvero emozionante e speciale.

Che musica ascoltavi da teenager?
Prevalentemente solo musica degli anni ’50 e dei ’60 con una predilizione per le produzioni di Phil Spector. Sì lo so non ho fatto molti progressi in fatto di gusti musicali! Ahahah!

Qual’è il tuo momento preferito dei vostri live?
Ci sono diversi momenti. Go Square Go perché la gente impazzisce, It’s My Own Cheating Heart That Makes Me Cry perché è una canzone veramente bella e Daddy’s Gone che è il pezzo con cui normalmente chiudiamo i concerti, la gente ne canta ogni parola e per noi è un momento molto emozionante e speciale.

Il ricordo più bello da quando sei nei Glasvegas?
Toccare fisicamente per la prima volta la versione in vinile del nostro album, da quel momento ci siamo sentiti veramamente una band, ce l’avevamo fatta!

Sei una persona romantica?
Molto romantica, credo nel vero amore.

L’hai trovato?
No, lo sto ancora cercando per questo ci credo.

Com’è essere la ragazza della band?
E’ divertente, sono la sorella e loro sono i miei grandi fratelli che si divertono a prendermi in giro tutto il giorno!

Usavi vestire di solo nero anche prima di unirti ai Glasvegas?
No ma credo che sia molto funzionale essere in tour e vestirsi solo di nero perché non si vede quando sei sporco e la mattina non ci metti molto a scegliere cosa metterti.

Chi è Geraldine?
E’ la ragazza che vende il nostro merchandise, dopo te la presento, se hai un problema lei ascolta tutti e da consigli.

Qual è la canzone che non smetteresti mai d’ascoltare?
Say Hello, Wave Goodbye dei Soft Cell.

Vi hanno definito la miglior band d’Inghilterra, cosa rispondi?
Non saprei, ci sono molte band con talento in giro. Siamo una banda di nerd, se ha dirlo sono dei nerd come noi allora siamo magici, siamo i migliori del mondo.

A CAMP


Nina Persson in pausa dai suoi Cardigans torna dopo otto anni ad occuparsi del suo side project A Camp. Se l’amarezza è sempre appartenuta al suo immaginario occupando gran parte dei suoi testi mai come oggi è presente in Colonia. Disincantata e realista nonostante un’immagine vintage da sognatrice Nina ha riversato le sue emozioni in questo album scritto con il marito e compositore Nathan Larson e con il musicista Niklas Frisk insieme gli A Camp. Il bello di Colonia è che un album senza tempo, onesto, non vuole creare ma far parlare per la sua semplice bellezza. Se il debutto degli A Camp fu prodotto niente meno che da Mark “Sparklehorse” Linkous in Colonia la band fa tutto da se mettendosi in discussione dalla scrittura agli arrangiamenti, ma in loro aiuto come guests son accorsi musicisti quali James Iha l’ex-Smashing Pumpkins, Joan Wasser meglio nota come Joan As Police Woman, che ha curato gli archi e Kevin March batterista degli A Guided By Voices.

Colonia. Un profumo, un riferimento al colonialismo, sicuramente un titolo curioso, me lo spieghi?

Volevamo avere un tema ricorrente nel disco che appartenesse al genere umano, come la civilizzazione e la socializzazione abbiano interferito con l’uomo. Non possiamo negare che siamo stati primitivi perchè nostri istinti primordiali sono ancora presenti in noi, nonostante la società con le sue regole abbia cercato di cancellarli. L’intero album è una specia di gara tra l’istinto e l’intelligenza, per questo ci sono anche diversi riferimenti alla giungla e alla lotta per la sopravvivenza con cui gli animali che la abitano convivono da sempre.

Però c’è una canzone che s’intitola Eau De Colonia…

Ci piace giocare con le parole, il nostro sogno era quella di realizzare un album che durante l’ascolto sprigionassi un profumo d’Eau De Colonia, un’esperienza stereo in tutti i sensi.

So che l’album è stato ispirato anche da un safari che hai fatto in Affrica, vero?

Sì, ma non era un safari tradizionale, il nostro obiettivo non era quello di vedere gli animali, una delle mie migliori amiche è nabimiana e ora vive a Cape Town, ogni anno per Natale torna in Naibia con la macchina campeggiando lungo la strada. Ci ha invitati più volte e finalmente ci siamo uniti a lei in questo viaggio incredibile. Abbiamo attraversato il deserto, cantato attorno al fuoco e attraversato anche qualche momento difficile ma è un’esperienza che consiglio a tutti.


Se devo trovare la differenza principale tra la musica dei Cradigans e gli A Camp nonostante in comune abbiano un mood malinconico e pop penso agli ottoni e agli archi che in questo album hanno un ruolo importante, sei d’accordo?

Io amo i corni. Questa volta abbiamo scritto le canzoni da soli, senza aiuti, compresi gli arrangiamenti. Spesso i musicisti che suonano strumenti come il violino o il clarinetto, e in questo disco ne abbiamo fatto largo uso come hai detto tu, hanno idee fantastiche che noi scoltiamoe crchiamo d’incorporare nella nostra musica. Inoltre abbiamo avuto la possibilità di lavorare ancora con la bravissima Joan Wasser che ha suonato viola e violino per noi, ed è una grande amica di Nathan.

E James Iha?

E’ un vecchio amico, siamo vicini di studio a New York, usciamo spesso insieme quindi è stato quasi naturale chiedergli di suonare un paio di canzoni del nuovo album.

La prima parola che mi viene in mente per descrivere il suono di Colonia è timeless, ti ci ritrovi?

Certo, è un disco volutamente timeless, meno old fashion del precedente e più focalizzato sulla musica folk americana degli anni ’70, avevamo molto chiaro in mente il periodo che volevamo esplorare rivisitandolo in chiave attuale.

Come in tutti i tuoi progetti anche qui la malinconia è di casa, ma il risultato non porta tristezza ma serenità e anche gioia, cosa ne pensi?

Questo mi fa piacere sentirlo perché è esattamente quello che volevamo comunicare. La musica di Colonia è un viaggio emozionale che esplora la bellezza e le sue sfaccettature, di certo non si può essere tristi quando si parla di bellezza.

Per me la canzone più emozionante dell’album è Golden Teeth and Silver Medal duetto che vede al tuo fianco Nicolai Dunger talentuoso cantautore svedese…

Nicolai è un talento, la sua voce è incredibile e calza alla perfezione la canzone, è il mio cantante preferito di sempre.


Qual è il significato che attribuisci alla canzone Stronger Than Jesus?

E’ un modo un po’ naive per dire che l’amore è più forte di ogni cosa, l’amore fa paura, è un sentimento senza meta mi sono imaginata una battagli tra Gesù e l’amore che come un vecchio eroe dei cartoni animati che va in giro con un martello a polverizzare chiunque si trovi davanti.

Il tuo immaginario va a pari con il tuo modo di essere, voglio dire che se parlo dello stile di Nina Parsson chi ti conosce sa di cosa sto parlando. E’ qualcosa che ti viene naturale o c’è una ricerca alle spalle?

In parte è un’istinto naturale ma non nascondo che mi piace l’idea di avere un mio marchio di fabbrica, mi piace avere questo bilanciamento tra le due cose e sapere che le persone lo apprezzano e ne capiscono la trama mi lusinga. Quando ascolto un disco che mi piace ne assorbo la completezza, la trama, il soggetto, la cover, creo una sorta di viaggio che vorrei si trovasse anche nei miei dischi. Voglio avere una forte identità.

Ti sei da poco trasferita a New York per amore, come ti trovi?

Io amo New York e credo fosse giunto il momento di affrontare questo importante cambiamento nella mia vita, mio marito è di New York quindi nonostante mi trovi molto lontano dalla mia famiglia e dalle mie abitudini la considero comunque la mia casa. Credo sia il posto più incredibile in cui abitare.

Consigliaci un disco:

Ultimamente sono ossessionata da Miles Davis quindi punto su Kind Of Blue, un classico.

LOVVERS


S’intitola “Think” il debutto dei Lovvers, sette canzoni concentrate in dodici minuti, violente, ruvide, registrate in presa diretta come un vecchio disco punk in cui possiamo ancora sentire la polvere delle cantine in cui la band si esibita fino ad attirare l’attenzione su di se. Un antidoto ai gruppi indie inglesi, al suono omologato, un’attacco sonoro che Shaun Hencher sferra al mondo e colpisce senza pietà, quando meno te lo aspetti, come il rasoio a scatto di un maniaco. I Lovvers da Notthingam sono qui per ridefinire i ruoli, in un mondo in cui punk rock è diventato un termine mainstream e allargato che comprende nei suoi ranghi troppe mescolanze che si chiamano Green Day, Gallows o Fall Out Boy. E’ finito il tempo dei giochi è ora di fermarsi a “pensare”.

Think ha un suono lo-fi e ruvido, avevi le idee chiare su quello che volevi ottenere con i Lovvers?
Shaun: Certo, sin dal giorno in cui ho deciso di formare la band. Abbiamo registrato tutto in presa diretta in una volta sola, suonando le canzoni di fila così come sono nell’e.p., non mi piace l’idea di incidere le tracce in studio ricantando le canzoni in una stanza da solo davanti ad un microfono, non m’interessa. Volevo che Think suonasse come una band dal vivo, che sprigionasse quel certo tipo d’energia ed eccitazione.

Quindi preferisci suonare dal vivo allo scirvere nuovi pezzi?
E’ difficile da dire, però in due anni che suoniamo insieme abbiamo passato nove giorni in studio, quindi se metti a paragone le due cose la risposta viene da se. Mi piace suonare e capisco che lo studio ti può ricompensare se hai molto tempo da dedicargli, oggi credo che suonando molto stiamo imparando altrettanto ma in futuro cercheremo di dedicarci più alla vita da studio.

C’è un messaggio nel titolo Think?
Và letto in chiave ironica, si riferisce al mondo discografico, a tutte quelle band che pensano troppo a come apparire invece di attacare le spina e mettersi a suonare, la scena inglese al momento è veramente piatta, tutti vogliono solo divenatre grandi. Mi sono guardato intorno, ho guardato cosa succede e mi è sembrato divertente usare questo titolo.

Ma ti senti a tuo agio quando definiscono i Lovvers come una punk band?
Credo sia un paragone pigro. Mi piace la musica punk, ma cosa vuol dire punk rock? I primi dischi dei Pink Floyd erano punk rock ma non pensi a loro come una punk band. In generale le persone quando pensano al punk lo associano all’avere la cresta, piercing, tatuaggi, ai Sex Pistols, agli Exploited ma per me è più un modo di pensare, di vedere le cose, di comportarsi, vivendo la propria vita accettandone le diversità. Accetto la definizione di punk band come attitudine non convenzionale, ma non come sonorità.

So che hai studiato fotografia, e la copertina di Think è un tuo scatto, quali sono i fotografi che stimi?
E’ il particolare di una foto, l’immagine intera ritrae una bambina con un lecca lecca in bocca e la maglietta dell’esercito americano, è molto forte, credo che prossimamente la pubblicherò sul nostro sito. I fotografi che stimo di più sono William Eggleston, mi ha sempre ispirato potrei passare ore a guardare le sue foto, Stephen Shore un fotografo americano bravissimo e poi c’è Boris Mikhailov un ragazzo russo che ha davvero del talento, è molto provocatico con le sue foto, cattura scenari che all’apparenza sembrano normali ma che in realtà non lo sono, mi piacciono le foto che ti spingono a farti delle domande.

Il vostro e.p. dura dodici minuti, per curiosità quanto durano i vostri live?
Non più di quindici minuti, ma che problema c’è, si possono anche suonare quindici canzoni in quel lasso di tempo, alcune persone sono in disaccordo ma è solo una questione di tempo, l’importante è riuscire a trasmettere qualcosa, potremmo suonare per due ore e risultare una qualsiasi band noiosa. L’e.p. è il nostro punto di partenza per dire al mondo che esistiamo, come quando appendi il cartello “non entrare” sulla porta della tua cameretta per marcare il tuo territorio.

Vi considerate degli outsider?
In effetti non ci sono molte band con cui possiamo relazionarci, ci sono ottime band in circolazione ma non abbiamo nulla in comune con loro, soprattutto in Inghilterra.

Una canzone del vostro e.p. s’intitola Wasted Youth, ti senti parte di questa generazione?
Ho venticinque anni e non ho mai vissuto una rivoluzione musicale, non ho mai conosciuto una band che rappresentasse le mie idee portando qualcosa di diverso. Intendo band come i The Beatles o i Led Zeppelin o i Nirvana, band che hanno cambiato qualcosa che è andato anche al di fuori della musica, voglio dire cosa ho vissuto? Gli Oasis? Gli Strokes? Che tristezza…

Ma quando eri teenagers cosa ascoltavi?
Black Sabbath, Aereosmith, Fugazi, Helmet, Kyuss. Non sono mai stato fan dei Green Day anche se ci hanno più volte paragonato a loro.

I Green Day? Al massimo ai Ramones…
Oh Yeah!

TELEPATHE


Busy Gagnes e Melissa Livaudais sono le Telepathe (si pronuncia Telepatii), la nuova sensazine post avant-garde di Brooklyn, NY. Prodotto da mr. TV on The Radio Dave Sitek, Dance Mother è un album che scavalca i generi, partendo su beat e samples, incorpora rap, elettronica, shoegaze con un risultato che sconfina nel pop. Un cantato etereo in cui spesso le voci del duo s’incontrano creando ritornelli sognanti dal cuore dark, che suonano come una versione druggy e cerebrale delle Au Revoire Simone. Per incontrare Busy e Melissa siamo andati a Berlino al West Germany, centro sociale fatiscente, ritrovo dei cultural junkie della città a due passi dalla fermata Kottbusser Tor sulla U8. Location ad hoc per la musica delle Telepathe, in cui fumo, folla e suoni distorti al limite del sopportabile, si sono uniti a synth e a beat inpnotici, tutto impacchettato in una piccola stanza, creando psichedelia trascendentale su cui ballare, un’esperienza sensoriale unica.

Raccontateci qualcosa del vostro background:
Melissa: Ho cominciato a suonare la chitarra a quattordici anni, ho studiato teoria musicale, ho preso lezioni di piano e poi ho frequentato l’accademia d’arte visiva ma ho lasciato perdere presto perché mi annoiavo.
Busy: Mia mamma era una cantante quindi ho cominciato a suonare e a ballare sin da piccola. Il ballo è sempre stata la mia passione, sono diplomata all’accademia d’arte moderna.

Questa tua passione per la danza, s’incorpora in qualche modo nella vostra musica?
B: Mi piacerebbe incorporare la danza nei nostri video creando apposite coreografie ma per ora è solo musica.

Come vi siete conosciute?
M: A New York tramite amici comuni, un mio caro amico suonava nei Wikkid, avevano un concerto in città e cercavano un batterista perché il loro si era ammalato così chiese a me di unirmi alla band di cui anche Busy faceva parte, così ci siamo conosciute.

La vostre musica è un mix estraniante di generi, avevate chiaro in mente il vostro suono quando avete formato le Telepathe?
M: No, onestamente prima eravamo molto più orientate verso il rock, forse anche per le esperienze che avevamo alle spalle con i Wikkid e i First Nation. Ma poi abbiamo deciso che non volevamo più fare rock e abbiamo cominciato a comporre e ad arrangiare canzoni con strutture aperte ad ogni tipo di possibilità. Questo è quel che è successo.
B: Sì, abbiamo cominciato a comporre canzoni su beats costruendo semplici melodie, a cui aggiungiamo loop che mandiamo avanti e indietro. E’ un rapporto molto collaborativo e per ogni canzone abbiamo un’intenzione ben precisa.

Credo che il nome della band esprima subito il feeling che trasmette la musica, quale è nato prima?
M: Oh my God! Non lo so… Credo che prima sia venuto il nome (ridacchia) e poi abbiamo inziato a fare quasta indescrivibile musica pazza. Volevamo creare qualcosa che non fosse ovvio, e abbiamo cercato di mantenere le redini salde su questo concetto.

L’obiettivo è stato raggiunto, ma vorrei sapere se in modo spontaneo o se c’è stata una ricerca alle spalle…
B: Volevamo creare qualcosa che non si fosse mai sentito prima quindi prima abbiamo dovuto figurare nella nostra testa cosa fosse questo qualcosa (scoppiano a ridere entrambe). Dopodiche l’abbiamo fatto.

Dance Mother è un grower album, la prima volta che lo ascolti è straniante ma poi lo si assimila e sembra quasi un disco pop, si lascia persino cantare, cosa ne pensate?
M: Volevamo che in ogni canzone ci fosse un’elemento cantabile.
B: Siamo ossessionate nel creare “the most catchiest fucking music ever!”.

Come se la vostra intenzione è quella di far scoprire qualcosa di nuovo ad ogni ascolto…
B: Yeah! Melissa funziona, cool! E’ esattamente quel che volevamo.
M: Sì, creare canzoni ballabili e orecchiabili che mandano in trance chi lo ascolta.

E’ vero che David Sitek si è offerto spontaneamente di produrvi il disco perché è vostro fan?
M: Sì. Un mio caro amico, Nicky Mao degli Effi Briest amico che lo consoce gli ha fatto sentire i nostri provini e a lui sono piaciuti e ci ha chiamate. Non ci saremmo mai immaginate di ricevere un giorno una chiamata da Dave Sitek che ci diceva: “Hey perché non venite a registrare qui da me?” Ok…
B: Un mese in studio con Sitek, eravamo come bambine in un negozio di caramelle. A volte aveva delle idee folli e un modo di lavorare che ci rendevano nervose, ma poi il risultato era sempre incredibile. E’ un genio.

Come è stato lavorare con un genio della musica?
M: Dave è un mentore. Ha spogliato le nostre canzoni di ogni elemento superfluo, facendole diventare qualcosa di grande e ballabile.
B: Abbiamo imparato molto da lui, non sapevamo niente su come registrare un pezzo o produrlo, ci ha dato un sacco di nozioni tecniche, ora siamo più abili in studio.

Cosa succede a New York musicalmente parlando?
M: Abbiamo un sacco di amici che fanno musica, facciamo parte di una sorta di crew artistica che ha come base Brooklyn, c’è molto rispetto e ispirazione reciproca tra di noi.
B: Ma c’è anche molta inflazione, a New York chiunque suona in una band quindi bisogna saper scegliere.

Credete che la città sia cambiata negli ultimi anni?
M: Sì. E’ come se al momento tutto fosse sottomesso, saturato, tutto e più costoso per questo viviamo a Brooklyn. In un certo senso è come se qualcosa è morto e aspetta di rinascere.
B: Fortunatamente ci sono un sacco di comunità artistiche che reagiscono in modo creativo a questo torpore generale.

Qual è la vostra fonte d’ispirazione in città?
M: La stazione radio hip-hop Hot 97. La amo ed è la mia fonte d’ispirazione più grande, insieme ai sintetizzatori del mio amico White Williams.

La vostra personalità è simile alla vostra musica?
M: Sì, siamo totalmente insane di mente.
B: Siamo molto dark.
M: E poi quando non hai soldi e se licenziata da ogni lavoro saltuario che trovi in qualche modo bisogna arrangiarsi no? Così abbiamo deciso di fare musica folle per questi tempi bui.

Sulla copertina di Dance Mother indossate parrucche, vi piace giocare con i vestiti?
M: Sì, solo ci piacerebbe aver più tempo e più soldi per farlo.
B: Per noi è divertente, ci piace craere delle performance in cui indossiamo outfit particolari e balliamo. Credo sia un altro modo per esprimere la nostra personalità. Ci piacerebbe un giorno poter sviluppare un vero e proprio spettacolo da incorporare alla nostra musica.

Per cominciare vi siete fatte disegnare il merchandise dalla designer inglese Kete Moross, giusto?
M: E’ una nostra amica, amo il suo lavoro! E’ una ragazza davvero cool, e i suoi disegni geometrici sono perfetti per la nostra musica, ci piacerebbe farci fare dei visual per i nostri live.

Vi sentite parte della definizione avant-garde?
M: Eravamo sviluppato un forte senso di ribellione contro questo termine all’inizio, ma poi ho capito che ogni cosa oggi è avant-guard, oggi giorno ogni cosa è accettabile.
B: Per questo noi siamo post avant-gard.
M: In poche parole siamo musiciste pop.

Sapete comunicare utilizzando la mente?
M: Certo ma solo tra di noi.

THE VIRGINS




La Webster Hall insieme alla Bowery Ballroom sono la mecca della scena indie di New York. Stasera suonano i The Virgins, il gruppo gioca in casa ma da un anno non si esibisce nella sua città. Abbiamo appuntamento alla venue con Donald Cumming, cantante pazzerello e disinibito che frequenta la scena artistoide della città, i suoi migliori amici si chiamano Ryan McGinley, Dan Colen e Terry Richardson. C’è un via vai di strumenti e soundcheck alla Webster Hall ma Dan è lì che ci aspetta, sdraiato su di un vecchio divano di pelle sintetica su cui avranno posato il sedere i nomi più illustri della scena indie mondiale. Dan è il leader dei The Virgins, ha uno sguardo da furbo che sembra voler dire “rinchiudi tua figlia in camera o l’aggiusto io”, inoltre quanta gente conoscete che è riuscita a strappare un contratto a una major senza avere una band? A scartoffie firmate i The Virgins non solo non avevano un batterista ma non sapevano nemmeno suonare, si sono chiusi per un anno in casa a imparare suonando ventiquattro ore su ventiquattro. Il loro primo concerto è stato a Parigi durante la settimana della moda, dove hanno condiviso il palco con Patti Smith e Sonic Youth. Se non è questo rock’n roll!

Cosa ti lega a New York?
Tutto. Sono nato e cresciuto a New York city, poi i miei genitori hanno divorziato quando ero adolescente e mi sono trasferito in Florida con mia mamma, ma non ha funzionato. Mi sono accorto di non essere esattamente un tipo da spiaggia, mi mancavano l’asfalto e le luci della città, così sono tornato a New York da solo e ho cominciato ad ascoltare un sacco di musica, a scrivere canzoni e a frequentare party. New York è la mia vita, amo viaggiare ma prima o poi devo tornare in città perché il mio cuore vi appartiene.

The Virgins, è un nome che descrive un’immaginario preciso che si sviluppa anche attraverso i testi delle vostre canzoni e nei vostri video, penso soprattutto a Rich Girl, come è nato il concept?
Tutto è cominciato quando ho scritto One Week of Danger, ero così entusiasta del pezzo, così ho pensato ad un nome che potesse evocare le sensazioni che mi trasmetteva questa canzone che parla di un tradimento con una ragazzina pettegola. All’epoca non avevo ancora una band ma sapevo che un giorno sarebbe esistita, io avevo già un nome, e ho avuto ragione.

Mi sembra che l’umorismo sia un prerogativa dei The Virgins, ho ragione?
Assolutamente. Credo che sia importante per noi, suoniamo musica che pensiamo esprima noi stessi e le nostre vite, cerchiamo di divertirci e ridiamo un sacco, e vogliamo che la nostre canzoni siano divertenti.

Ascoltando le vostre canzoni mi è facile immaginarvi teenagers negli anni ‘80 mentre guardate le lezioni d’aerobica in tv per le donne in bikini. Musicalmente avete preso il gusto tipico di quegli anni e lo avete reso contemporaneo, è così?
Esatto! Adoravo le lezioni d’aerobica con le tette saltellanti e i tanga, io sono cresciuto proprio in quegli anni, mi hanno formato musicalmente e culturalmente quando ero bambino. Abbiamo portato la musica degli anni ’80 nel nostro mondo, tralasciando gli arrangiamenti noiosi di quegli anni ed estrapolandone il lato più divertente. Ci piaceva l’idea di quattro ragazzi bianchi che cercano di fare della disco music.

Il video di Private Affair ne è l’esempio, non so quale sia stata la fonte d’ispirazione ma a me ricorda un programma italiano degli anni ‘80 che si chiama Colpo Grosso in cui i concorrenti maschi che rispondevano esatto alle domande del quiz potevano far spogliare una donna a loro scelta.
Ahahah! Fantastico! Il video è basato sul Robyn Bird Show, un programma condotto da Robyn Bird famosa pornostar Americana e mandato in onda nell’area di New York a fine anni 70. Nel programma venivano invitati pornostar e stripper sia maschili che femminili, che si esibivano in uno strip integrale molto intenso. Channel 35 è stata una benedizione per tutti i ragazzini della città che guardavano il programma di nascosto dai genitori. E’ stato il mio primo approccio al mondo della pornografia, pensa che mandano in onda le repliche ancora oggi.

A proposito di sexy bellone, nel video di Rich Girl avete usato la modella Behati Prinsloo famosa in America per esser stata il volto di Victoria Secret…
Oh man! Grazie a quel video siamo stati la band più invidiata dagli uomini d’America! Behati è il sogno proibito n.1 degli americani, è supercool. Lei si è divertita un sacco sul set e mi ha reso molto nervoso perché era più brava di mè.

Sulla copertina del vostro disco ci sono dei chewingum masticati e appiccicati, da studente gli attaccavi anche tu come tutti sotto al banco?
Certo, lo faccio tutt’ora, non sotto al banco ma dove mi capita. L’artwork è un opera d’arte del nostro amico Dan Colen, è un pittore e scultore di New York, il suo lavoro è incredibile, ha fatto una serie di quadri utilizzando chewingum e ne ha realizzato uno apposta per la nostra copertina.

Che poster avevi appesi in cameretta quando eri un teenagers?
Fammi pensare… avevo qualche paginone centrale di Playboy, il manifesto di Taxi Driver e poi… no non so se dirtelo (ridacchia). Basta così.

Non fare il timido dai, dimmi che poster avevi!
Ok, hai ragione, avevo un poster del gruppo hip hop 2 Live Crew in cui loro tre erano sdraiati in un enorme letto sotto le lenzuola con il cellulare in mano e dal fondo del letto uscivano solo sederi di donne che erano in primo piano come se gli stavano facendo un lavoretto di bocca. Era molto divertente!

Qual è la musica che ti ha formato?
Il rock classico, David Bowie, The Doors, Rolling Stones, Robert Johnson, l’hip hop dei 2 Live Crew, Nevermind dei Nirvana e Appetite for Destruction dei Guns N’Roses. Sono ossessionato dalla musica.

La tua band favorita newyorkese di tutti i tempi è:
The Velvet Underground, Lou Reed è il più grande di tutti.

La tua ultima scoperta musicale:
The Band “Music from Big Pink” un disco del 1968 meraviglioso.

Come sei finito sulla copertina del primo libro del fotografo Ryan McGinley?
E’ un mio caro amico, credo che sia il fotografo più di talento in circolazione, è incredibile guardare le sue foto e credo che il suo lavoro migliori di giorno in giorno.

Se ti sente Terry Richardson che ha scattato le foto dell’album non so se sarà contento…
Ahahah! Hai ragione! No, non si arrabbierebbe, Terry è un amico e un fotografo affermato, lui stesso apprezza il lavoro di Ryan insieme ci siamo divertiti parecchio. Sai che sono stato a milano con Ryan?

In vacanza?
Fu in occasione della sua prima mostra in Italia nel 2002, portò me ad alcuni amici e fu un disatro.

In che senso? Raccontami.
Per cominciare fu il mio primo viaggio fuori dagli states. Avevo vent’anni all’epoca ed ero veramente fuori controllo, un selvaggio direi. Ci successe di tutto, un mio amico writer si arrampicò su un ponteggio per fare dei graffiti e cadendo si spaccò la testa in due, dei poliziotti ci hanno inseguito in macchina perché avavamo spaccato il vetro ad un taxista a coltellate dopo che ci aveva chiuso dentro perché non avevamo i soldi per pagare. E le ragazze italiane! Delle fighe paura ma che non guardano i ragazzi alla mano come noi, eravamo troppo street per loro, ricordo tutte queste bellone circondate da uomini benestanti con il macchinone. Spesi tutti i miei soldi in uno streap club perchè in qualche modo dovevo pur sfogarmi! Ricordo questa ragazza che si spogliava su di un divano rosso rotante, aveva le poppe più belle che avessi mai visto. Mi han buttato fuori anche da lì perché non avevo più una lira.

Wow! Una vera avventura.
Che rifarei subito. Posso tornare con te a Milano?

LATE OF THE PIER



I Late Of the Pie sono nati in mezzo alla foreste di Castle Donington, un piccolo sobborgo che è anche uno dei maggiori centri industriali inglesi. Fabbriche, un aereoporto che funge da scalo merci e tanti alberi, aggiungiamoci la pioggia e la nebbiolina tipicamente inglesi e il panorma sembra quello tipico di un film di Spielberg degli anni ‘80 ma trasportato in Inghilterra, niente case prefabbricate quindi ma mattoni. Me li vedo Samuel Eastgate, Sam Potter, Ross Dawson and Andrew Faley alla finestra delle loro camerette mentre si messaggiano con l’alfabeto morse usando la luce delle torce. Questo connubio tra natura e industria ha gettato le basi per la musica dei Late Of the Pier, quattro ragazzi appena usciti dalla loro adolescenza con la passione per le percussioni e sintetizzatori. Fantasy Black Channell è l’album più innovativo, avvenutroso e magico uscito quest’anno, prodotto da Erol Alkan che ha aiutato la band ha raccogliere il patrimonio culturale del new rave per gettarlo via e andare oltre.

Qual è la vostra missione?
Missione… mi piace questo termine. Il fatto è che nessuno di noi voleva passare il resto della sua via a Caslte Donington in mezzo ai boschi, e tutti sapevamo di non voler fare un qualsiasi lavoro day by day ne tanto meno l’università. Volevamo fare gli artisti, avevamo tante idee, avevamo sedici anni ma sapevamo già allora di avere una missione, quella d’intrattenere le persone! All’inizio non sapevamo bene cosa fare o come suonare, e questo ci ha portato ad ottenere un suono diverso per ciascuna canzone. Abbiamo cominciato tutto suonando la chitarra e la batteria che per un teenager sono gli elementi più ovvi per iniziare a comporre musica, da questo punto di partenza direi ovvio abbiamo cercato di portare le nostre canzoni verso qualcosa di più complesso per riuscire a distinguerci dalla folla e i sintetizzatori e i sample ci hanno portato al risultato. Potresti dire che non è un procedimento nuovo ma noi invece di usare i samples per colorare le canzoni li abbiamo usati come se fossero dei veri e propri strumenti con cui jammare. Oggi puoi preregistrare tutto, ti permette di poratre con te suoni lasciando a casa gli strumenti spesso ingombranti e costosi, che sia un pianoforte o il barrito di un elefante. Brillante no?

Un paio d’anni fa il vostro album girava già in rete con il nome di Zarpcorp demo, è stato un modo di farvi notare da gente come Erol Alkan che ve lo ha poi prodotto?
Non abbiamo mai avuto problemi con il download gratuito, non ho mai capito le persone che si arrabbiano perché i loro pezzi finiscono in rete. Non ho mai speso molti soldi per la musica sono sembre stato abituato a scambiarla sia con gli amici che con la mia famiglia. Onestamente non capsico chi fa musica solo per soldi, sono proprio loro quelli che si arrabbiano. Per questo abbiamo deciso di regalarla a tutti, le persone che vogliono dare un valore alla musica sono quelle che la rovineranno. Erol si è sentito molto vicino al nostro immaginario, alle nostre costruzioni psichedeliche e avvitate, al modo in cui decostruiamo il suono, gli sono piaciute e per questo ci ha chiesto di lavorare con noi.

Siete giovanissimi, e senza esperienza avete creato un album complesso, avventuroso, in cui sperimentazioni strutturali si sovrappongono a ritornelli orecchiabili dalla struttura pop, dove avete acquisito il bagaglio che vi ha permesso di ottenere questo risultato?
Siamo coscienti del potere della musica pop e della sua ovvietà, lo scrivere ritornellli efficaci alternati a strofe più complesse che non ti aspetteresti legate insieme è il gancio traino della nostra musica. Se riesci a creare il giusto contrasto come i Kyuss hanno fatto con la musica noize in America, sarai cento vole più potente di chiunque altro.

Immagino non sia facile riproporre il suono del disco dal vivo…
E’ difficile sì, ma credo che dal vivo siamo meglio soprattutto oggi che siamo più rilassati e consapevole delle nostre potenzialità, farsi tarscinare dalla musica e non cercare di forzarla è una tecnica che per noi ha funzionato molto.

Siete nati e cresciuti in mezzo alla campagna, credi che la natura abbia infliuenzato la vostra musica?
Si ma non saprei spiegare in che modo. Vivere in mezzo al nulla credo ci abbia aiutato a sviluppare un certo immaginario, Castle Donington è il punto centrale del nulla, abbiamo un aereoporto, industrie, e intorno il nulla. Abbiam passato la nostra adolescenza in mezzo ai campi a far niente per ore, se fossimo nati in una città saremmo stati sovrastati da milioni di cose confuse e forse non avremmo avuto la chance di creare la musica nel modo in cui la facciamo oggi.

Oltre che nella musica avete un forte immaginario visivo, i vostri video sono dei corti, penso a The Bears are Coming o Heartbeat, chi è la mente creativa che ci sta dietro?
Ci piacciono gli immaginari forti, le immagini che emanano potere, siamo tutti fans di Jodorosky che per una serie di coincidenze è stato l’influenza principale del video di Heartbeat. I nostri video non hanno senso ma sono forti e completano le canzoni, le rafforzano. Siamo stati fortunati perché i registi con cui abbiamo lavorato sono riusciti a capirci e ad entrare nella nostra musica, per The Bears are Coming ad esempio sapevamo solo che avremmo girato in un bosco, ed è stata un’esperienza incredibile anche se il video che mi piace di più è Focker, abbiamo speso pochissimo per realizzarlo e come al solito le idee cheap sono le migliori, mi piace perché colpisce e cattura l’essenza della band.

Nella vostra musica c’è anche un forte aspetto cupo e sinistro, un canale fantasioso sì ma nero come dice il titolo, giusto?
Fantasy Black Channel è l’addentrarsi nelle tenebre e nella bellezza dell’immaginazione. Sono tre parole che se prendi singolarmente puoi associare all’immaginazione e sì è vero c’è un forte lato oscuro nella nostra musica, ma non puoi non avventurarti nel buoi per tirare fuori qualcosa di magico. Abbiamo una forte affinità verso l’ignoto, la nostra musica sembra uscire da un buco nero, fare quello che gia conosciamo non ci è mai piaciuto, ci annoiamo facilmente e per fortuna abbiamo un’immaginazione molto forte.

I Late of the Pier non esisterebbero senza la muscia di:
David Bowie, The White Stripes e Cut Copy.

LADY GAGA



Spalline spinte al limite, body con sgambatura inguinale, tacchi vertiginosi, capelli rigorosamente platino, ochiali con incrostazioni di diamanti, due sexy schiave al suo seguito e testi unpolitically correct che parlano di sesso, soldi, alcol e shopping. E’ Lady GaGa la nuova diva del pop oltreoceano. Dopo aver cavalcato la scena dei club nel Lower East Side di New York e scritto canzoni per artiste pop del calibro di Britney Spears, Stefani Joanne Angelina Germanotta a soli ventidue anni si trasforma in Lady Gaga e fonda la Haus of GaGa una vera e propria maison che taglia cuce e imbastice, vestiti, videoclip, cortometraggi, performance e gestisce un blog in cui il video diario Transmission Gaga-vision mette in mostra tutte le sue sfaccettature. Le sue canzoni sono electropop commerciale, il cui intento è proprio quello di scalare le classiche di tutto il mondo, il suo album scritto per intero di suo pugno, s’intitola proprio The Fame e se in Just Dance si scatena cavalcando un’orca gonfiabile e in Dirty Sexy Rich si accende una sigaretta da una banconota in fiamme, dal vivo si presenta con degli occhiali digitali che proiettano immagini sulle lenti e non sale mai sul palco senza il suo infame Disco Stick. Siete pronti a incontrarla?

Ciao Lady GaGaga.
Ciao! Sai che sono italiana?
L’avevo intuito dal tuo vero nome, ma non so di dove sei originaria…
Mio papà è di Palermo, ma purtroppo non conosco una parola d’italiano anche se lo capisco abbastanza. Io sono nata e cresciuta a New York.

Come è nata Lady GaGa?
Il mio produttore mi chiamava GaGa in studio inoltre sono una fan dei Queen e Radio Gaga è una delle mie canzoni preferite, così l’ho scelto come nome d’arte, si ricorda facilmente perchè rimane impresso.

Quello che mi piace di te è che non sei la solita cantante pop, hai un forte immaginario, sei coraggiosa e sfacciata, hai una bella voce e ti scrivi da sola le canzoni, chi t’ispira in quel che fai?
David Bowie, Andy Warhol, Madonna, Christian Lacroix, Chanel, Prince, Maison Martin Margiela.

David Bowie è il primo della lista, per questo hai spesso un fulmine dipinto sul viso, è un tributo?
Certo! E’ la più grande rock star di tutti i tempi.

Parlami del tuo mondo Haus of Gaga, tu balli, canti, hai girato un corto, hai un look curato e aggressivo, come coordini tutto?
Haus of Gaga è il mio team creativo, è formato da giovani persone talentuose con cui mi trovo bene a lavorare perché vediamo le cose dallo stesso punto di vista, mi aiutano a mettere in pratica le mie visioni rendendo speciale ogni mia apparizione. Ci tengo a far sapere che sono io a fare tutto quello che faccio, non sono come la maggior parte delle pop star di oggi che si limitano a cantare pezzi scritti da altri. Ho un team ma le idee sono mie. Perderei la testa se un giorno mi togliessere questo controllo creativo, probabilmente smetterei di fare musica.

Nelle tue canzoni parli di sesso, alcol, denaro, sei totalmente politicamente scorretta e noi ti amiamo per questo! Ma come reagiscono i puritani d’America alle tue canzoni?
(Scoppia a ridere) I love it too! Io non scrivo musica per i puritani. Scrivo di quel che conosco e io conosco la moda, i soldi e i drink!

Nel singolo Just Dance racconti di una notte d’eccessi in un club, sei ubrica, perdi le chiavi e il cellulare ma la musica è così bella che te ne freghi e continui a ballare. Ti è mai successo davvero?
Oh sì. Quando mi diverto perdo totalmente il controllo, bevo e ballo come una pazza e non m’importa più di niente.

Credo che il tuo corto The Fame sia geniale, presentare una album attraverso un mini film, come ti è venuta quest’idea?
Grazie, è la cosa di cui sono più orgogliosa. Ho lavorato duramente per questo progetto, è il mio miglior lavoro, girare per le strade di Parigi è stato divertente, soprattutto la parte in cui facciamo le ladre al mercato. L’idea era quella di fare un film che accompagnasse l’album, un mix video che raccontasse il mondo di GaGa e che spiegasse il concetto di successo, nel video io e le mie ballerine camminiamo per le starde fiere e ci atteggiamo da star. Sul posto tutti ci guardavano e ci fermavano chiedendoci chi eravamo e cosa stavamo facendo, è stato figo.

E’ a questa attitudine che si riferische il titolo dell’album The Fame?
Sì, è un’attitudine tipicamente newyorkese che colpisce i giovani, il modo in cui si atteggiano per la strada, sembra quasi che stanno recitando una parte. Proiettiamo un senso della fama che non ha nulla a che vedere con i soldi o con la notorietà vera e propria, ma è stile, è arte, vogliamo far vedere che siamo fieri di quel che siamo e che non abbiamo paura a New York. So che può sembrare pacchiano l’atteggiarsi come star quando non lo si è ma è solo questione di essere chi ci sentiamo di essere, io stessa prima non era nessuno ma ora sono famosa, tutto può succedere grazie al successo.

Ho visto che durante i tuoi show usi le tue ballerine come sostegni per la tastiera, tu suoni e loro la reggono con le mani facendo strane coreografie con il corpo, il risultato è un effetto trash, fetish e sexy, la prima cosa che mi è venuta in mente è Arancia Meccanica…
Mi piace molto il film ma non è stata quella l’idea di partenza. Ci tengo molto alla completezza, credo che questo tipo di coreografia si sposi perfettamente con la musica, tutti nelle loro performance usano delle fottute scale, o la chitarra per atteggiarsi da rockstar, invece abbiamo creato una coreografia grafica usando il corpo in modo non convenzionale, con riferimenti al testo della canzone che poi è Beautiful Dirty Rich. Ha un forte impatto visivo.

Hai scritto una canzone che s’intitola Paparazzi, è un’altra presa in giro dello stardom?
In America sono tutti ossessionati dalla moda, da quando ho cominciato ad esibirmi come Lady GaGa i paparazzi hanno cominciatio a seguirmi per il mio look eccentrico, con i vestiti che mi disegno da sola, è divertente guardare le news e sentire: “Ho mio Dio, Lady GaGa è favolosa, guardate che outfit meraviglioso indossa!” L’America è così colorita sotto questo aspetto, e io amo queste frivolezze, in Europa i paparazzi sono molto più duri, non ti chiedono la marca del vestito che indossi, tutto questo mi fa molto ridere.

Christina Aguilera ai recenti VMA aveva un look un po’ troppo Lady GaGa per i miei gusti… Cosa provi a riguardo?
(ridacchia…) Non provo assolutamente niente.

BLOC PARTY


Sorpresa! Non sono passati nemmeno due anni dal tormentato secondo album A weeken In The City che Kele Okereke e i suoi kids on the bloc, pubblicano un nuovo album che farà discutere, di nuovo. Intimacy. Dinenticatevi la politica degli esordi di Silent Alarm, qui non c’è nessuna Price of Gas, lasciatevi alle spalle anche il pop di I Still Remember, la band di Londra cambia di nuovo direzione e il singolo Flux con la sua elettronica violenta, può essere considerato il precursore di questa nuova avventura. Co-prodotto da Paul Epworth e Jacknife Lee, ripettivamente produttori del primo e del secondo album della band, Intimacy musicalmente suona cattivo, acido, cupo, distorto ma curato nei minimi dettagli, mentre testualmente può essere letto come il diario segreto di Kele, tormentato, curioso, disilluso, distaccato, realista, tutti aggettivi che ruotano intorno al tema che manda avanti l’umanità: l’amore. Intimacy è un disco rock elettronico che verrà consumato nei club, reso disponibile a sorpresa in digital download lo scorso agosto vedrà la sua pubblicazione fisica a fine ottobre con l’aggiunta di nuovi brani nella tracklist. Abbiamo incontrato i Bloc Party a Hackney, in una giornata troppo assolata per la Londra d’inizio ottobre, qui Kele Okereke si è raccontato a cuore aperto, come un vecchio amico senza paura e senza vergogne, non ha nulla da nascondere, perché così è la vita.

Ciao Kele, come va? Siete in tour adesso vero?
Mmmh… Sì siamo appena tornati dall’America quindi sì, siamo in tour…
Il singolo Flux ha segnato la vostra svolta elettronica, è stato un punto di partenza per il nuovo album?
Non credo che musicalmente Flux abbia influenzato il nuovo album, quando l’abbiamo registrata c’eravamo posti come obiettivo quello di fare qualcosa che non avevamo mai fatto prima, ma credo che questa esperienza ci ha fatto approciare il nuovo album in un modo diverso dai precedenti, oltre a farci capire che siamo arrivati in un punto in cui possiamo fare quel che vogliamo. Non ci saremmo mai immaginati di raggiungere la top ten con una canzone come Flux.

Molti pensano che avete pubblicato il nuovo album con troppa fretta a solo un anno e mezzo da A Weekend in the City. Io credo che avete fatto un ottimo lavoro in breve tempo, qual è il tuo punto di vista?
Grazie. Le persone non sono mai contente. Non c’è niente che cambierei di questo album, nemmeno se potessi farlo ora. Credo che abbiamo raggiunto un’obiettivo, mai come ora posso dire di sentirmi parte di una band affiatata che sa quello che vuole e lo ottiene. Siamo anche riusciti a superare l’alone di hype che ci circondava e mi sento sollevato. Se il risultato è convincente chi se ne frega di quanto tempo abbiamo impiegato nel raggiungerlo.

Qualcosa accomuna tutti i vostri album, il fatto che non sono da primo ascolto, bisogno assimilarli per comprenderli. Può essere uno svantaggio al giorno d’oggi?
Non siamo una pop band, credo che sia una qualità perché ogni volta che ascolti l’album scopri qualcosa di nuovo. Siamo ossessionati dalla struttura delle canzoni e cerchiamo di rompere le convenzioni del pop. La nostra idea era quella di fare un album che le persone possono vivere da dentro, in modo personale.

I testi di Intimacy sembrano pagine strappate dal tuo diario segreto, come vanno letti?
(sorride). Forse sì. Con l’album precedente mi sono sforzato di mostrare attraverso i testi la mia visione del mondo. In questo invece non ho assolutamente pensato a quello di cui volevo parlare, come provavo un’emozione cercavo di buttarla giù sul mio notebook, per questo il tema dell’amore accomuna molti testi. Ho lasciato che il mio cuore mi guidasse parlandomi senza pormi freni, senza farmi domande, sono testi molto onesti e spontanei.

E’ stato doloroso scrivere in questo modo?
No perché non mi pento di nulla di quel che ho fatto e scritto. Sono esperienze che ho convertito in ricordi, non voglio essere il lifecoach di nessuno ho solo lasciato libero il mio istinto.

Siete stati accusati di aver tralasciato gli argomenti politici del vostro esordio, ok il nuovo album parla dell’umanità, della vita, ma non credo abbiate tralasciato del tutto la politica, il video del singolo Mercury parla da solo…
Esatto. Abbiamo trattato la politica in modo sfuggevole e minimale, questo non è affatto un album politico. Le canzoni sono finestre affacciate sul mondo. Secondo me The Price of Gas o Helicopter sono canzoni più pacate rispetto a quelle di A Weekend in the City che considero più penetranti. Ma volevamo allontanarci da tutto questo, cambiare, evolverci, non ripeterci.

Sulla copertina dell’album c’è il dettaglio di due bocche che si baciano, sul singolo Mercury una mano che passa tra i capelli, su Talons una mano che accarezza un collo. Dettagli, come quelli che formano le vostre canzoni, è questo il senso che volevate raggiungere?
Sì, l’idea era quella di catturare dei momenti intimi. Persone che si toccano, si baciano senza limiti, ma senza lasciarne intuire il sesso. E’ stata intenzionale la scelta di associare dettagli fotografici alle canzoni, perché come esse rappresentano la cattura di un momento emozionante e una fragilità che a tratti spaventa.

In Song For Clay (Disappear Here) singolo estratto da A Weeken in the City cantavi la frase diventata celebre “East London is a Vampire, It Sucks the Joy Right Out of Me”. Nel video di Talons scappate dalla luce in una Londra colpita dal blackout. Come vampiri?
Non ci avevo pensato! Sinceramente mentre lo giravamo non avevo idea di quello che ne sarebbe uscito ma credo segua perfettamente l’effetto di smarrimento e ansia della canzone.

Due produttori molto diversi Jacknife Lee e Paul Epworth che convivono in un solo album. Intimacy è un disco con una sola e forte personalità, è stato difficile ottenere questo risultato?
Paul e Jacknife hanno due modi di lavorare molto diversi, con Jacknife non c’era musica, non ha voluto sentire nulla, ci ha fatto partire da zero, ha un porcesso creativo molto strano come lui stesso è, se ne sta sempre davanti al suo computer e lavora molto sulla manipolazione del suono. Paul è più tradizionale, ha voluto sentire i demo e ci ha fatto suonare molto, ha cercato di entrare dentro alla nostra musica.

Zephyrus è una canzone magnifica e imponente, avete lavorato con un vero coro?
Il suono di così tante voci che cantano all’unisono è qualcosa che mi ha sempre affascinato e che ho sempre voluto usare in una nostra canzone. E’ stato fantastico.

L’ultima volta che ci siamo visti a Milano ti ho portato da autografare una copia della fanzine australiana They Shoot Homo, Don’t They? con il tuo ritratto in copertina. Tu l’hai firmata e sei fuggito. Non era mia intenzione metterti in imbarazzo!...
Non mi hai assolutamente imbarazzato, avevamo avuto una giornata pesante d’interviste ed è stata una situazione inattesa. L’ultima cosa che mi aspettavo era quella di farmi vedere in underwear dai miei compagni. Ho posato per il giornale perchè me lo ha chiesto il mio amico Shannon di Melbourne, (direttore della fanzine), è stato divertente.

Ora sei incorniciato nel mio bagno vicino a Michael Stipe e a Casey Spooner entrambe in underwear...
Cool! Dovrò rilasciare una dischiarazione la prossima volta che torno a Milano.

So che ami il pop radiofonico, qual è la canzone che canti oggi sotto la doccia?
Live Your Life di Ti feat. Rihanna, ne sono ossessionato. Amo il pop di questa euro-cheasy song!

KATY PERRY


E’ una storia vecchia come il tempo, chi cresce in un ambiente troppo conservatore primo o poi straripa, spezza i ponti, rompe gli argini e fugge verso la propria libertà. La nuova stella del pop americano Katy Perry, è nata in una casa di pastori protestanti, entrambe i genitori, ve lo immaginate che incubo? Cresciuta cantando in chiesa ha pubblicato addirittura un album di christian music nel 2001 ma poi si è liberata d’inutili sottogonne e merletti, non che del suo vero cognome, Hudson, per diventare Katy Perry, nome con cui ha scalato le classifiche con un pezzo dal titolo inequivocabile I Kissed a Girl. Nel giro di pochi mesi Katy è diventata una star, occhi blu magentici, capelli neri boccolosi, look vintage ispirato alle pin-up e una voce forte e grintosa che sul palco esplode farcita da mossette maliziose. One of The Boys è il titolo provocatorio del suo primo album, che mescola sonorità electro al pop, e al folk, con un soprendente risultato radio friendly.

Come è successo che Katy Hudson si è trasformata in Katy Perry?

Tra i quindici e i ventitrè anni le vedute di una persona cambiano, questo non vuol dire che mi pento di quel che ho fatto prima, ma oggi sono me stessa, tutto qua. Io sapevo cosa volevo essere, l’ho sempre saputo. In realtà non esistono una nuova o una vecchia Katy, sono sempre la stessa, tutti i genitori hanno delle idee per i propi figli e cercano di organizzargli la vita, solo che i figli poi crescono e se ne fregano se i genitori gli dicono di mangiare i cereali o di non mettersi troppo trucco.

Il tuo singolo s’intitola I Kissed a Girl, sai gia qual è la prossima ragazza che bacerai?

Non mi piace programmare, ma probabilmente bacerò la tua.

Come mai hai impiegato quasi cinque anni per pubblicare il tuo primo album?

E’ da quando ho diciasette anni e mi sono trasferita a Los Angeles che ci lavoro, vedi, mi sono dovuta rendere conto che registrare un disco va oltre una precisa scelta artistica, ero ingenua e non pensavo al businness, che invece ogni major ha fisso in testa. Mi sono resa conto del vero mondo in cui volevo entrare e prima di fare la scelta giusta, che credo di aver fatto, incontravo solo persone che volevano farmi apparire come non ero, cercavano di trasformarmi in qualcun’altro perché mi ritenevano troppo audace. Mi sono sentita molto stupida, erano cinque anni che divevo ai miei amici e alla mia famiglia che presto sarebbe uscito il mio album e tutti hanno cominciato a considerarmi una pazza furiosa. Ma oggi posso dire di avere avuto l’ultima parola: non sono pazza!

Il tuo album s’intitola One of the Boys, è il tuo modo di dire al mondo “sono una ragazza con le palle”?

Mi piace prendermi gioco dei ragazzi, andare alle partite di baseball e bere birra, questo mio atteggiamento è inaspettato, ma il fatto che io sia una ragazza che fa musica pop non vuol dire che al liceo facevo la cheerleader o che sognavo di diventare la reginetta del ballo! I ragazzi rimangono spesso spiazzati dalla mia personalità e vedere la loro faccia sbalordita è la cosa che più mi diverte. Sin dai tempi della scuola mentre le mie compagne si dipingevano le unghie io scappavo al campo skate con i maschi.

La scorsa estate hai partecipato al Warped tour noto festival itinerante di musica principalmente crossover, non ti sei sentita un po’ fuori posto? Come sei stata accolta?

In realtà quast’anno c’era spazio per tutti, c’erano cinquanta band per data e ognuno poteva trovare così il suo spazio. Certo c’erano dei ragazzi venuti apposta per guardarmi il culo! Ma nonostante sia una pop girl dal vivo mi arrampico sugli amplificatori e mi butto sulla folla quindi il culo glielo spacco io!

Disegni e crei i tuoi outfit, hai mai pensato di produrre una tua linea?

Ho un blocco di schizzi ed è ovvio che come molte ragazze sogno di poter realizzare i mei vestiti, credo che il look di una persona sia il suo biglietto da visita, tramite il look puoi capire subito che tipo di persona è, se ha senso dell’umorismo o se si prende troppo sul serio e che tipo di conversazione puoi avere con lei. Se mai disegnerò una linea di moda l’umorismo sarà l’elemento chiave.

So che il tuo gruppo preferito sono i Queen, qual è la tua canzone preferita del loro repertorio?

Killer Queen, la prima volta che l’ho sentita mi sono subito chiesta come un uomo potesse descrivere così bene un tipo di donna così decatente. Ne sono rimasta ammaliata.

Qual è il tuo accessorio preferito?

I collant perché sono una patita di skate e mi servono per coprire le mie gambe piene di lividi.

POLLY SCATTERGOOD




Nome: Polly Scattergood
Nazionalità: inglese
Età: 22
Etichetta: Mute
Ultimo lavoro: I Hate the Way (single)
Segni particolari: Pazza per il vino rosso
For lovers of: Tori Amos, Kate Bush, Cassie (Skins character)



Qual è stata la tua prima grande passione, la poesia o la musica?

Sono due passioni che sono sbocciate dentro di me simultaneamente, in quanto una completa l’altra.

E’ proprio di questo che volevo parlare, nelle tue canzoni le poesie assumono la valenza di testo che unito alla musica diventa canzone. Quando hai cominciato a cantare le tue poesie?

Ho sempre scritto simultaneamente musica e testo, solo successivamente ho cominciato a scrivere poesie senza accompagnamento musicale. Succede perché spesso l’ispirazione mi coglie di sorpresa mentre sono sul bus o per la strada e non potendo fare musica al momento, sul posto, la trasformo in poesia. Le parole si scrivono da sole nella mia mente.

Da dove viene Polly Scattergood?

Sono nata in un piccolo paese sul mare, mia mamma è un’artista e mio padre un attore. Ho lasciato casa a sedici anni e mi sono trasferita a Londra per diventare musicista.

Che bambina eri?

Ero un totale disastro non che molto rumorosa, spaccavo piatti e lasciavo cadere oggetti purchè facessero un rumore interessante. Almeno per me!

Hai girato una serie di video in cui canti o leggi poesie, tutti molto bucolici, romantici e malinconici. Quando hai cominciato a girare questa serie di clip che hai chiamato Polly World?

Non ricordo, so solo che sono diversi tra loro e che dipendono totalmente dallo stato d’animo che avevo nel momento in cui li ho girati. Li considero come dei collage astratti. Mi sembra carino riuscire a fare entrare le persone che non mi conoscono dentro ad un pezzo del mio mondo senza il bisogno di dare via la mia anima.

Guardando questi video sembra che tu abbia un forte legame con la natura, confermi?

Vivendo a Londra non ho molta natura attorno a me. Ma amo guardare la vita e tutto quel che è in essa. Mi faccio condizionare molto da tutto quello che mi sta intorno.

E’ vero che sei una fan del vino rosso? Se sì, dovresti venire presto in Italia…

Mi piacerebbe molto venire in Italia, da quel che ho sentito è un paese meraviglioso. Ma sono appena tornata dal sudovest della Francia dove ho potuto apprezzare molte bottiglie di Bordeaux!

Cosa t’ispira di più nel comporre una canzone oltre al vino rosso…?

L’ispirazione arriva a caso senza un motivo e la maggior parte delle volte nel momento più inopportuno.

La prima volta che ti ho vista è stato su YouTube, era un filmato in cui recitavi una poesia intitolata I Hate the Way. Mi ha emozionato… sai d’avere una sorta di potere che scava nell’emotività delle persone?

Credo che quando ti esponi, la prima cosa che devi sperare è che le persone provino delle emozioni ascoltandoti o guardandoti, belle o brutte che siano. Sarebbe brutto mettetre cuore e anima in qualcosa che nessuno può sentire a livello emotivo.

Hai un cuore dark?

Credo che il mio cuore sia come un gelato Magnum al contrario. Nero dentro e bianco fuori!

Quali artisti ti hanno portato a intraprendere questa strada?

Troppi. Amo Leonard Cohen, le sue parole e quell’umore noir che trasmette in ogni suo testo.

Hai un sogno ricorrente?

Sì, una strega mi rincorre lungo un corridoio senza fine.

Come è nato il testo del tuo primo singolo Nitrogen Pink?

Non saprei come iniziare, credo sia una delle canzoni più astratte che ho scritto ma ricordo che il testo è nato di sera e che all’epoca vivevo a Streatham. E’ una canzone che parla della fragilità della vita, e di come a volte nonostante ci sembri forte si possa sgretolare in un attimo davanti ai nostri occhi, lasciandoci disarmati e impotenti.

Quanto dovremo aspettare per ascoltare il tuo album di debutto?

Se tutto va bene uscirà all’inizio del prossimo anno e sarà il frutto di tre anni di dura fatica. Sarà un album parlato, elettronico, rumoroso e tranquillo, pieno di strati, sentieri e porte segrete.
Descriviti in tre parole:

Indecisa, intellettuale, smemorata.