1 febbraio 2008

Daft Punk



Dai tempi in cui hanno inventato il french touch con Homework, album che rivoluzionò il concetto della parola dance che uscì dal sottosuolo dei club per entrare nelle classifiche mainstream, i Daft Punk non hanno mai smesso di far parlare. Da Parigi Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter sono il duo di dj più rilevante e imitato degli ultimi dieci anni andando sempre controtendenza per inventarne una nuova, come la scelta di andare in tour senza un album da promuovere, come realizzare un film in veste di registi senza comporne la colonna sonora, come trasformarsi in una copia di robot mantenendo intatta la privacy e diventando dei Dj-superhero. Loro ultima mossa concedersi in un'intervista quando tutti avevano smesso di chiedergliene una stremati dai costanti rifiuti. Thomas Bangalter ci ha raccontato cosa vuol dire essere un Daft Punk.

Avete spiazzato tutti partendo con il tour Alive 2007 senza un album da promuovere, considerando che il vostro tour precedente il Daftendirektour risale al 1997, cosa vi ha spinto a tornare on the road: il desiderio di tornare sopra un palcoscenico, la voglia di ristabilire un contatto con il vostro pubblico o cosa?
Da sempre abbiamo cercato di sovvertire le regole dettate dalla discografia, chi ha deciso che bisogna progettare un tour solo in favore della promozione di un album?Abbiamo sempre fatto quel che ci piace quando ci piace e continuiamo a farlo anche oggi che l’industria discografica sta per esplodere, sempre più artisti decidono d’essere liberi e indipendenti di esprimere se stessi come vogliono. Noi abbiamo deciso di esprimerci con questo tour che è come una performance, qualcosa d’innovativo e sperimentale che nessuno ha mai fatto e che va ben oltre il dj set.

Ho visto il live ed è stata un’esperienza totale, visiva, uditiva, motoria, uno spettacolo in technicolor multivision, da dove è partito il concept per lo show?
Tutti i nostri lavori hanno un punto di partenza comune, che è riuscire a fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima e un live show ci dava maggior opportunità creativa piuttosto che chiuderci in studio e creare un nuovo album. Abbiamo creato un’esperienza visiva con luci e immagini unite al design del palco con l’enorme piramide dentro di cui suoniamo che va a completare l’effetto visivo con i nostri costumi da robot. L’estetica è da sempre al centro dei nostri lavori insieme alla tecnologia, questi gusti combinati insieme danno vita a questo powerfull show.

Immagini, video e suoni sono perfettamente sincronizzati tra loro, lo show che proponete è uguale ogni sera ho avete modo d’improvvisare?
L’unico momento che abbiamo per improvvisare sono i cambi tra una canzone e l’altra il resto dello show non ce lo permette perché è stato concepito come un musical elettronico e come a teatro devi riproporre ogni sera le stesse scene cercando di migliorare di volta in volta.

Sul palco indossate costumi da robot e per questo in molti si chiedono ci siete veramente voi all’interno o se usate delle controfigure. Il mistero fa parte dell’essere Daft Punk?
Indossare quei costumi è una sofferenza, tengono un caldo infernale ma fa parte della performance e io credo che valga la pena indossare quei costumi per esprimere la nostra creatività in modo eccitante e così appagante, esibirci a viso scoperto sarebbe noioso e non alimenterebbe tutte queste domande e questo mistero che da sempre ci segue e che fa assolutamente e volutamente parte del nostro essere. E’ la forma d’espressione quanto più vicina a quello che vogliamo essere.

Su YouTube girano filmati amatoriali del vostro tour più di qualsiasi altro artista, cosa ne pensi?
E’ grandioso, siamo così eccitati all’idea che per questo motivo abbiamo deciso di non pubblicare un dvd dello show ma solo il cd audio. Crediamo che quello che sta succedendo è così contemporaneo e nuovo, cosa ci può essere di meglio dell’espressione artistica dei nostri fan attraverso internet. Poter sperimentare insieme al nostro pubblico è stato incredibile e fonte d’ispirazione per noi.

Tra poco uscirà in dvd Electroma, il vostro primo film girato, cosa vi ha ispirato questo progetto?
Abbiamo iniziato a sperimentare con la musica e la tecnologia quindici anni fa quindi abbiamo deciso che era arrivato il momento di provare a fare la stessa cosa con il cinema. Abbiamo iniziato a filmare con la telecamera in modo totalmente libero, cercando di trasportare su pellicola le immagini che scorrevano nitide e precise nella nostra mente. Il risultato è molto spontaneo e underground, qualità che la musica elettronica oggi non può più avere perché attraverso le nostre nuove forme d’espressione abbiamo ridisegnato il concetto d’underground.

Nel film non ci sono dialoghi ma solo musica e non composta da voi, perchè?
Ci siamo concentrati molto sull’immaginario piuttosto che su di un copione, il surrealismo è stato un forte stimolo per il film e una volta riusciti a trasportare in realtà le immagini che avevamo dentro la testa non ci siamo preoccupati di legarle tra di loro con un filo logico né tanto meno dei dialoghi. In quanto alla musica penso che comporla noi stessi avrebbe deviato il risultato finale del film perché avrebbe condizionato le nostre stesse immagini, inoltre volevamo che Electroma fosse impossibile da datare.

A proposito, cosa pensi di questa nuova ondata di musica elettronica con dj come Digitalism, MSTRKRFT, Justice e Boys Noize?
Penso che questi artisti facciano della buona musica ma penso anche che l’elettronica oggi si sia evoluta in un genere predefinito come può essere il rock e credo sia difficile creare qualcosa d’innovativo, questo non toglie che ci siano in giro bravi artisti come quelli che hai nominato che sanno creare qualcosa di fresco e libero pur non essendo originali.

A quando un nuovo album?
Saremo in tour sino alla fine dell’anno dopo di che entreremo in studio.

Consigliaci un disco:
“Classics” l’ultimo album dei RATATAT.

The Hives


“Scusate devo interrompere il concerto perché questa canzone è troppo bella e noi siamo troppo bravi! Oddio non ci posso credere! Ma vi rendete conto quanto siete fortunati ad assistere al concerto di una band così brava, siamo la più grande rock’n roll band del mondo! Rock’n roll, ho yeahhhh!”.Pelle Almqvist si diverte così, durante i concerti dei suoi The Hives ferma tutto all’improvviso per autostimarsi, si inginocchia, si tira pugni intesta, mima convulsioni e urla come un James Brown posseduto. Dalla metà degli anni novanta ad oggi, la garage band svedese ha sempre amato descriversi come il gruppo rock’n roll più figo del mondo e oggi con The Black and White Album potrebbero diventarlo veramente, scavalcando una volta per tutte la linea che separa l’indie dal mainstream. Complice Pharrell Williams che ha prodotto parte dei pezzi di questo quarto album, che suona tanto vintage quanto innovativo e che si guadagna a pieni voti il titolo del disco più rock’n roll del 2007. Con le loro uniformi impeccabili da bravi figli di papà, con gli occhi stralunati e l’immancabile buona dose d’idiozia gli Hives sono tornati e faranno tornare l'orticaria al mondo del rock.

Pharrell e i The Hives, un’accoppiata assurda a pensarci ma il disco è una bomba rock, com'è sbocciata questa collaborazione?
Abbiamo conosciuto Pharrell un paio d’anni fa durante un festival in Giappone e lui ci ha detto di essere un grande nostro fans e che gli sarebbe piaciuto lavorare con noi. Prima di metterci al lavoro decidemmo di provare a fare qualcosa di nuovo perché ritenevamo fosse giunto il momento di rischiare, di rimetterci in gioco e Pharrell è il primo nome a cui abbiamo pensato.

Immagino abbiate due punti di vista completamente diversi, ma insieme funzionate benissimo, com’è andata in studio?
Non pensavamo di registrare così tante canzoni con Pharrell, pensavamo sarebbe arrivato in studio con tutte le sue apparecchiature elettroniche con cui noi non abbiamo molta famigliarità e invece la prima cosa che ha fatto una volta entrato in studio è stato abbracciare la chitarra elettrica dicendoci che produrre un album rock è da sempre il suo sogno. Pharrell è molto veloce, è riuscito subito ad immedesimarsi nella band e ci faceva sentire e risentire tutto quello che stavamo registrando a volumi altissimi e continuava a ripeterci: “Fate quello che volete, qualsiasi cosa vi salti in mente”. Insieme abbiamo cercato di fare un buon disco suonato in modo molto diretto adatto sia all'ascolto che dal vivo, e il risultato è imponente. This is our big rock’n roll album man!

Il disco è un vortice si suoni e colori, perchè The Black and White Album?
Questo è il disco più pretenzioso che abbiamo mai fatto e molti album storici e maestosi che hanno fatto la storia si chiamano the black album o the white album così c’è sembrato logico chiamare il nostro nuovo lavoro The Black and White Album perché è un disco perfetto.

Ci sono due anime nel disco una più garage tipicamente Hives, l’altra più sperimentale con tastiere e campioni ma lo stesso rock’n roll, cosa vi ha spinto ad osare arrivati a questo punto della vostra carriera?
Abbiamo provato a spingerci oltre senza sapere bene cosa sarebbe successo, poi avremmo anche potuto buttare via tutto e fare un disco più vicino ai nostri standard ma sentivamo che era giunto il momento di provarci. Mi piace che in ogni caso anche le canzoni più strane hanno mantenuto intatta la nostra identità, chi ha pensato anche solo per un attimo che saremmo tornati con un album hip-hop per via di Pharrell si è sbagliato alla grande. Pharrell ci ha aiutato a non aver paura della tecnologia e ad usarla senza storpiare la nostra natura, e ci siamo divertiti come non mai in studio e si sente in ciascun pezzo. Questo è un disco superfun e siamo molto soddisfatti!

Però un po’ all’hip-hop avete ceduto, siete nel disco di Timbaland con cui avete co-scritto Throw It On Me…
Timbaland è un mito e noi stiamo cercando di lavorare con più persone possibili per espandere il nostro potere, per questo nell’album ci sono più produttori tra cui Jacknife Lee e Dennis Herring non volevamo precluderci nulla questa volta.

Ad ogni album cambiate divisa, il look di Tyrannosaurus Hives vi distingueva dai precedenti per l’utilizzo di cravattini bianchi a fiocco e per le ghette, favolose per altro. Questa volta cosa avete scelto?
Abbiamo delle school uniform, come se facessimo parte della confraternita degli Hives, l’idea è quella di apparire come se appartenessimo ad un’associazione per gentlemen molto esclusiva nel quale entrare è difficilissimo.

Sin dai vostri esordi vi proclamate la più grande rock’n roll band di questi tempi, io credo che con questo album siate destinati a diventarla a tutti gli effetti, sei d’accordo?
Noi lo diciamo perché lo siamo, gli Hives sono la più grande rock’n roll band vivente, è solo che non tutti se ne sono accorti, ma questo non è un nostro problema.

Babyshambles


Parlare male di Pete Doherty è troppo facile, è il personaggio rock più chiacchierato degli ultimi anni, protagonista indiscusso dei tabloid scandalistici da quando ha iniziato a solcare il palcoscenico con i The Libertines nel 2002. Poi ha incontrato Kate Moss ci si è fidanzato e la sua fama ha fatto il giro del mondo, complice lo scandalo della cocaina. Oggi Kate si è disintossicata, ha lasciato Pete e lo ha rimpiazzato con un nuovo fidanzato mentre lui è ancora in preda alle droghe. Tra un pettegolezzo e un arresto per possesso di stupefacenti Pete ha trovato il tempo di scrivere anche il nuovo album dei Babyshambles, s’intitola Shotter’s Nation ed esce insieme all’ultimo scoop, delle foto in cui Pete fa sniffare del crack al suo gattino. Lasciare da parte tutto questo circo mediatico è difficile, ma Shooter’s Nation è un buon album pop, spontaneo e sincero, scritto da un ragazzo problematico diventato un idolo generazionale, un personaggio che sprigiona un carisma che possiedono in pochi, con quella sua attitudine scazzata, i pantaloni sudici, logori e i capelli sempre bagnati e sporchi che spuntano dall’immancabile cappello di paglia. Pete emana un’aurea che conquista, chiunque lo ha incontrato dice che trasmette un senso di tenerezza e fragilità che fa venir voglia di abbracciarlo all’istante, e lui si lascia abbracciare da tutti. Lo ha confermato anche Drew McConnell, bassista della band con cui abbiamo fatto due chiacchiere.

Ciao Drew, ci racconti qual è stato il clima in cui è nato Shooter’s Nation?
E’ stato un clima molto rilassato, ognuno di noi ha proposto idee che potevano essere un giro di chitarra o una melodia al pianoforte e tutti ci abbiamo lavorato, c’è stata molta più comunicazione e interazione tra noi rispetto a Down in Albion. Abbiamo suonato moltissimo dal vivo e abbiamo cercato di catturare l’assenza di queste session.

Per questo l’album suona così spontaneo?
Trovi?Grazie, ci stai facendo un vero complimento, abbiamo suonato tutto in una stanza evitando di affittare uno studio costoso proprio per cogliere la spontaneità dell’attimo, quasi come se fossimo in una sala prove e non in uno studio di registrazione. E poi eravamo seguiti da Stephen Street ingegnere del suono di Meat Is Murder dei The Smiths.

Il primo album fu prodotto da Mick Jones dei The Clash come mai oggi avete preferito Street famoso sì per The Smiths ma anche per aver forgiato il suono di Blur e Kaiser Chiefs?
Abbiamo scelto Stephen Street perché era l’unico che voleva lavorare con noi! Scherzo ovviamente!Vedi, per il primo album Mick Jones cercò di ottenere da noi il suono più naturale possibile, ricordo che ci fece suonare tutte le canzoni cinque volte di fila e estrapolò da ogni session il pezzo giusto per creare la versione definitiva, ma Stephen ci ha lasciato suonare all’infinito e ha registrato i suoni live singolarmente, ha catturato la spontaneità da ciascuno di noi e questo è quello che rende l’album così vero.

Quale significato si cela dietro al titolo Shotter’s Nation?
Quello che ti posso dire è che è nato durante un torneo della band a canasta!

I testi sono meno cupi e paranoici rispetto a Down in Albion che aveva un alone dark, siete più positivi oggi?
C’è definitivamente più luce in quest’album rispetto al precedente, anche se abbiamo attraversato momenti difficili abbiamo imparato ad affrontare i problemi con più positività.

Pete Doherty è costantemente seguito dai media che cercano l’ennesimo scoop, non pensi che questo in qualche modo ostacoli la credibilità dei Babyshambles?
Non credo che si metta in gioco la credibilità della band, forse sono io che ho una visione ottimista delle persone e penso che non si fidino ciecamente di quello che leggono nella stampa, voglio dire, se io leggo qualcosa di stupido riguardo a David Beckam o a Witney Houston ci rido sopra ed è finita lì, non metto in discussione le loro doti artistiche. So quanto la stampa è in grado di manipolare i fatti e spero che le persone ascoltino il disco dei Babyshambles prima di dare un giudizio, sarebbe sbagliato giudicare il nostro lavoro attraverso le azioni private di una persona.

Pete ha di recente pubblicato estratti dei suoi diari e alcuni poemi nel libro The Book Of Albion, lo hai letto?
No. Da quanto sono stato bambino sono stati pubblicati molti diari di personaggi famosi ma non sono mai riuscito a leggerli, in un qual modo mi è sempre sembrato di invadere la loro privacy, non ho mai dato una sbirciatina nemmeno al diario della mia ragazza.
Se Pete ha voglia di leggermi un poema che ha scritto o un suo pensiero sono pronto ad ascoltarlo e a discuterne ma io non leggero mai i suoi diari, è un’idea troppo strana e intima che spesso sconfina nel glam e nel pettegolezzo e preferisco mantenere una visione innocente sullo stato delle cose.

Un’ultima cosa, è vero che Pete dona tutto se stesso ai suoi fan, e spesso dopo i vostri concerti a Londra li invita a casa sua?
Sì, Pete si concede molto ai suoi fan perché si sente uno di loro e non vuole creare barriere da superstar, non è nella sua attitudine e non nega un abbraccio a nessuno, è lui il primo ad averne bisogno.

Jack Penate


Colori sgargianti, jeans sgualciti e arrotolati che fanno spuntare i calzettoni da un paio di sneakers consunte, l’esuberanza di Jack Penate traspare immediatamente, sia che s’incontri per strada o che si veda suonare, sorriso sulle labbra e sguardo gentile non lo abbandonano mai. Mezzo inglese e mezzo spagnolo Jack a sedici anni ha deciso che fare il musicista sarebbe stata la sua professione. Raggiunta la maggiore età ha iniziato a farsi le ossa suonando prima nei pub e poi inserendosi nella club scene di Londra diventando, (complice anche MySpace), un punto di riferimento per i giovani frequentatori delle indie night più cool.Non pensate di aver già capito tutto perchè Jack Penate è un cantautore ma con il look a metà strada tra il nu rave e il rockabilly e quando suona la chitarra balla muove i piedi freneticamente, come se le scarpe avessero preso vita trascinandosi appresso il resto del corpo come nel video di Spit At Stars. Alcuni gli danno del clown per questo ma lui se ne fotte, dice di non riuscire a stare fermo quando suona la chitarra come Stevie Wonder scuote la testa mentre suona il pianoforte posseduto dalla sua stessa musica. Niente sintetizzatori, fischietti ne tanto meno sirene della polizia, in Matinèe c’è del sano e divertente rock’n roll influenzato dallo ska, abbinato a qualche episodio più intimista dall’anima soul, che porterà alla ribalta questo nuovo e adorabile ragazzo del quartiere.

Jack, raccontaci com’è iniziata la tua avventura:
Sogno di diventare una star del rock’n roll da quando ho unidici anni, ho iniziato allora a suonare la chitarra, poi verso i sedici ho capito che fare il musicista sarebbe stato qualcosa di più di un semplice hobby. Formai una band con i miei compagni di college e iniziammo a girare i pub suonando, ho ricordi stupendi legati a quel periodo facevamo un casino pazzesco! E’ stato proprio il far parte di una band a farmi capire che volevo diventare un solista e creare la mia musica senza scendere a compromessi e in totale libertà. Ho iniziato così a suonare nei locali di Londra partecipando a serate esclusivamente acustiche esibendomi con una chitarra elettrica. Mi divertivo a fare casino sul palco lasciando i presenti spaesati e intontiti, sono andato avanti per due anni in questa direzione e senza l’aiuto di nessuno il mio nome ha cominciato a girare, mi sono trovato una folta fan base con la gente che veniva a vedermi suonare in qualsiasi parte della città.

Così ti ha notato la XL Recordings e ti ha offerto un contratto, giusto?
Sì ma dopo due anni di lavoro, e per un diciannovenne due anni sono un’eternità! Soprattutto nel presente che si può raggiungere la celebrità in un’ora ma non mi lamento ho accumulato molta esperienza e per diventare un musicista professionista è la giusta base di partenza.

Quali sono gli artisti che ti hanno spinto ad intraprendere questa professione?
Sembrerà un clichè ma ho ascoltato di tutto. Da piccolo ascoltavo Bob Dylan, Joni Mitchell, Tim Buckley e Neil Young, sono rimasto ossessionato da Nick Drake e non ascoltavo altro che folk. Poi è arrivato Jeff Buckley e in seguito ho scoperto il soul d’Otis Reding e il funk di Prince, in seguito è stata la volta del brit pop e a sedici anni dell’hip hop anche se non ha mai influenzato in nessun modo la mia musica.

In questo momento il tuo album non è ancora pronto, conosciamo i singoli Spit At Stars e Turn On The Platform due pezzi rock’n roll, scanzonati e ballabili, ma come descriveresti il mood dell’intero lavoro?
Credo che l’album nella sua totalità mi rappresenti meglio come persona, non ci sono undici canzoni up beat allegre e pop come i singoli da te citati, ovviamente c’è anche questo lato ma ho cercato di creare un album vario attraverso dei sali e scendi emotivi, ci sono episodi felici e danzerecci e altri che ti fan venire voglia di sdraiarti e ascoltare. E’ stato difficile scegliere i pezzi perché un album non è il singolo che senti alla radio e canticchi o balli nel club, l’album sono io e mi rappresenta, non ci sono vie di fuga. Una volta uscito l'album spero che le persone possano capire e vedere come sono fatto dentro.

I tuoi singoli usciti in 12” picture disc sono introvabili e su ebay raggiungono i 100 pounds l’uno, per un’artista emergente non è cosa da poco, inoltre ci sono i tuoi artwork disegnati con i pastelli e dei veri autoscatti in polaroid dentro ciascuno a renderli unici. E’ un altro modo per esprimere la tua creatività o per catturare l’attenzione?
Io amo il lato estetico delle cose e credo sia molto importante valorizzarlo, mi piace molto l’arte surrealista e quando ho del tempo libero mi piace visitare gallerie. Impazzisco anche per l’arte video e ho sempre disegnato, non so se sono bravo o meno, onestamente non mi sono mai preso sul serio da questo lato ma mi piace disegnare. Certo avrei potuto assegnare l’artwork dei miei lavori a qualcuno ma non ne vedo il motivo se posso farlo io stesso, i disegni aggiungono dettagli alla mia personalità e completano la mia musica.

I tuoi passi ballerini sono oggetto di controversia, io li trovo superdivertenti e non capisco come fai a suonare, cantare e ballare in quel modo allo stesso tempo, è stato difficile imparare a farlo?
No assolutamente! (Jack scoppia a ridere n.d.g.) Ballare è una cosa che faccio sin da ragazzo, ascoltando hip hop ho imparato a ballare la break e mi divertivo ad esibirmi alle feste con gli amici.Quando suono il mio corpo è carico d’energia e non riesce a contenerla, così trova sfogo nei miei piedi. E’ un processo naturale come capita a Stevie Wonder che non riesce a tenere ferma la testa, io non posso stare fermo quando suono, fa parte di me. So che alcune persone ridono di me per questo ma onestamente I don’t give a fuck! Ho capito da tempo che nella vita non c’è nulla di più bello d’essere se stessi e a molte persone manca la coscienza per capirlo. Guarda Prince per esempio ha sempre fatto quello che ha voluto fregandosene di tutto e di tutti presentandosi in pubblico truccato o con tutine scollate a mostrare il suo petto villoso e continua a farlo tuttora che ha quasi cinquant'anni. Io non ho mai sentito nessuno prenderlo in giro per questo, fa parte del suo essere. Il mio sogno è quello di poter raggiungere quest’obiettivo e non ho nulla da perdere perchè questo è quello che voglio fare nella vita. All’inizio avevo paura di non essere capito di risultare un pagliaccio, ma per fortuna la risposta del pubblico è andata ben oltre le mie attese.

Com’è Jack Penate dal vivo?
Gioioso, esplosivo, amoroso e non cinico mi piace instaurare un rapporto con il pubblico e non stare davanti a loro con aria superiore voglio che il pubblico capisca che sono uno di loro. Io sono cresciuto negli anni ’90 e ho visto molti concerti, all’epoca l’atteggiamento del brit pop era strafottente, le band salivano sul palco e sembravano pensare: “Avete idea di quanto siate fortunati a vederci? Perché noi siamo i migliori! Fuck You!”. Io non voglio esser così, voglio dire, senza un’audience io per primo non sarei nessuno. Tempo fa alla fine di un concerto un ragazzino che avrà avuto sedici anni è venuto da me dicendomi: “Ti voglio bene, posso abbracciarti?”. E’ stato lì che ho capito che il mio messaggio arriva alle persone, sono un new wave hippie e voglio spargere amore per tutti, basta con la violenza!

Bat For Lashes


Siete in camera vostra di notte, stesi a letto e la luce dei lampioni filtra dalle veneziane semichiuse con un effetto strobo dato delle fronde degli alberi che si muovono al vento. Il rumore di un windchain arriva da lontano mentre le ombre giocano sul muro dando forma a strane creature che inquietano e incuriosiscono al tempo stesso, proprio come le canzoni di Natasha Khan e delle sue Bat For Lashes.Un mondo notturno in cui innocenza e mistero diventano una cosa sola, mescolando tra una canzone e l’altra immagini estrapolate da film che esplorano il passaggio dalla pubertà all’adolescenza, come E.T., The Goonies, Donnie Darko, spunti rintracciabili tra le immagini del video di What A Girls To Do? Per metà principessa e per metà guerriera Natasha dal vivo è incantevole, ascoltare i pezzi di Fur and Gold è un’esperienza trascendentale, la sua musica ti rapisce e non sai dove ti porta. Abbiamo incontrato Natasha a Parigi dopo un concerto trionfale che ha scalfito un segno nel nostro cuore come farebbero due innamorati sul loro albero.

Le tue canzoni trasmettono sensazioni inquietanti, è come se il pericolo fosse in agguato dietro l’angolo, come se qualcosa di terribile ci attende nell’immediato, da dove scaturiscono queste visioni molto simili ai film anni ’80 di Spielberg?
Mi piace lasciare le cose sott’intese, sono molto legata all’oscurità, alle creature notturne e a ciò che ci fa paura durante l’adolescenza, sono cresciuta con film come i Gremlins, The Goonies o E.T. che parlano di ragazzini che sono cresciuti al sicuro nelle loro case ma una volta usciti si trovano a dover affrontare il mondo e fa paura. Ho guardato quei film centinaia di volte, ne sono ossessionata come lo sono con Donnie Darko. I protagonisti di questi film si trovano in un istante a doversi relazionare con qualcosa di molto grande e difficile da capire, certo fa paura ma è eccitante.

Un po’ come perdere la propria innocenza?
Anche come perdere l’innocenza. E' la relazione tra l’oscuro e i simboli, tutto quello che non puoi vedere ma che sai che c’è e che è lì, la bellezza dell’invisibilità.

Tua mamma è inglese, tuo padre pakistano e da piccola hai
girato il mondo con lui perché giocava nella nazionale pakistana di squash, quest’infanzia nomade ha contribuito allo sviluppo del mondo di Bat For Lashes?
Sicuramente nel mio inconscio sì, ma in realtà ho iniziato a cantare e a comporre musica abbastanza tardi, a sedici anni ascoltavo i Nirvana e il punk rock così cantavo urlando ma facevo veramente schifo, la mia voce non può raggiungere le corde di Courtney Love e io ero davvero arrabbiata e quando cantavo in camera mia i miei genitori mi urlavano: “Stai zitta, è orribile!”. Così ho smesso, mi sono intimidita e ho iniziato a cantare sottovoce, in un modo molto esile. Poi a diciotto anni ho deciso che da grande avrei fatto la cantante seriamente e quando i miei genitori hanno cominciato a sentire le mie canzoni mi hanno detto: “Ma sei bravissima perché non hai cantato prima? La tua voce è magnifica” e io ho risposto: “Perché mi avete detto che facevo pena!”.

L’album s’intitola Fur and Gold, due materiali opposti che danno sensazioni completamente diverse. Cosa accomuna questi due elementi al tuo immaginario?
Questo album è stato costruito assemblando elementi estremi tra di loro, ho usato nuovi e vecchi strumenti per crearlo, il buio e la luce, i bambini e la sessualità. Fur, la pelliccia, rappresenta l’animale: felice, selvaggio, sciamanico e anche il lato umano di ognuno di noi. Gold, è l’oro, è l’ego, la regina, il glamour, il glitter. Entrambi gli aspetti fanno parte di me che a volte sono forte, naturale e selvaggia e altre sono femminile e mi atteggio da diva. Ci sono molti simboli nelle canzoni, sono sempre stata affascinata dalla mitologia, dagli incantesimi e dalle creature che popolano questi racconti. Credo che con gli anni le donne abbiano dimenticato il loro legame con la natura che comprende gli odori, i sensi, gli istinti, il nostro lato selvaggio è andato via via reprimendosi e io ho cercato di recuperare il mio.

Sei diplomata in arti visive e sonore all’università di Londra, quanto questo ti ha aiutato a sviluppare in modo così naturale il tuo mondo?
Moltissimo, per me è molto naturale associare immagini a suoni, quando compongo, mi viene subito in mente un ipotetico video e viceversa, aver studiato animazione, illustrazione e sonoro all’università mi ha aiutato moltissimo, mi ha dato i mezzi per mettere in pratica i miei personaggi, le mie visioni femminili, ancestrali e il mondo che gravita intorno a loro. La musica per me è come un antico rituale che cerco di condividere e di trasmettere anche nel modo in cui mi vesto, è una forma di rispetto verso quello che faccio e verso il mio pubblico.

Jens Leckman


Jens Lekman è un cantautore svedese, la sua voce baritonale è l’elemento che caratterizza i suoi lavori considerando che musicalmente il giovane Jens ama cambiare pelle in ciascun album. Night Falls Over Kortedala è ambizioso e seducente, Jens prende ispirzione dalle sue memorie e dal suo mondo per creare un album romantico, lussureggiante e ubriaco che folgora chi lo ascolta.

L’impressione che si ha ascoltando le tue nuove canzoni è che hai cercato di fare un passo avanti con la tua musica, c’è più magnificenza, effetti inaspettati, ma le tue melodie bellissime sono sempre al loro posto, ho la sensazione che tu hai perso la tua innocenza ma che allo stesso tempo vorresti preservarla. Me ne parli?
Volevo fare un album in stile Graceland, volevo che le mie canzoni incontrassero nuovi posti, nuove persone e per farlo ho annusato dappertutto come un cucciolo di cane, anche se alla fine ho sentito che avevo lasciato qualcosa in sospeso a Kortedala e ho sentito la necessità di finire quello che avevo iniziato con i miei lavori precedenti. Ho chiuso un cerchio con questo album. Mi sono ritrovato ad ascoltare a ripetizione l’album di Lupe Fiasco “Food & Liquor”, mi sono innamorato del modo in cui usa i samples, mi ha ricordato il lavoro che ho fatto sino ad oggi e che non mi ha mai soddisfatto sino in fondo. Non considero questo album come l’aver intrapreso una nuova direzione ma un completamento, l’aver puntato una luce su quanto ho sempre desiderato fare. Sono il primo che deve farsi convincere dalle mie stesse canzoni e so che c’è sempre qualcuno in agguato dietro l’angolo e per ottenere questo risultato ho avuto bisogno di archi, di un’arpa, della salsa si Willie Rosario, di Enoch Loghts e di tutta la sua fottuta Light Brigade. Infine di una vecchia chitarra scordata, che però non mi convince tutt’ora.

Non conosco nulla riguarda al quartiere di Kortedala a Goteborg, com’è viverci, da come ne parli sembra un quartiere malfamato e pericoloso. Hai raccontato di essere stato assalito più volte per strada quindi mi chiedo come mai non ti sei trasferito prima e se hai intenzione di farlo, dove migrerai?
Mi trasferirò in Australia l’anno prossimo, penso che mi fermerò lì per un anno circa e poi deciderò cosa fare, mi sembra un buon cambiamento rispetto a Kortedala. Palme, caldo, bellissimi tramonti, credo che Kortedala sarebbe perfetta se avesse queste qualità.

Ho sempre immaginato la Svezia come un posto libero e sicuro per la comunità gay, ma sentendo quanto racconti nelle tue canzoni sembra l’esatto contrario. Oppure Kortedala è un mondo a parte?
Kortedala è diversa da tutto il resto. Ma non credo che le persone per strada mi chiamino frocio perché pensano che sia gay, è solo una parola che usano comunemente. E il vecchio che di solito me lo urla dietro è un veterano di guerra matto nella zucca.

Hai registrato tutto il tuo nuovo album in un claustrofobico monolocale ma hai raccontato che alcuni vecchi spiriti ti hanno tenuto compagnia. Sono stati carini con te e si possono sentire in qualche canzone?
Certo! Potete sentirli in tutto il disco, e pensare che mentre lo registravo non mi ero nemmeno accorto che erano lì.

La canzone Shirin è dedicata al tuo parrucchiere, nella copertina del tuo album qualcuno ti sta tagliando i capelli e hai chiamato il tuo studio Kortedala Beauty Center. Sei ossessionato dalla bellezza?
Sono ossessionato dai capelli… negli ultimi tre anni della mia vita ci sono stati un sacco di peli nuovi che sono cresciuti sul mio corpo. In particolare mi sono innamorato di alcuni ciuffetti argento che mi sono cresciuti attorno alle tempie. Sono la testimonianza del fatto che sono il lavoratore più duro di tutto lo show-biz . Però sì, sono ossessionato anche dalla bellezza, ma non solo della bellezza fisica nel senso classico. Il salone di Shirin si chiamava Kortedala Beauty Center ed era nel suo appartamento. Quando se ne è andato gli ho rubato il nome perché credo che il mio appartamento fosse l’unico posto rimasto in tutta Kortedala a produrre ogni tipo di bellezza.

Quando hai scoperto la tua voce e quando hai realizzato di voler diventare un cantante?
Ci ho messo molto ad uscire dalla pubertà. Avevo forse 18 o 19 anni. Ma a quel punto mi ero esercitato per così tanto tempo che è venuta fuori completamente come la coda di un pavone. Sono stato subito molto colpito da quanto fosse profonda.

Qual è il tuo periodo storico peferito e perché?
Mi piace molto il periodo cosiddetto di « esplosione cambriana ». Cioè è lì che si è scatenato il gran casino, no ?

Hai un dono unico nello scrivere i testi, non hai mai pensato di scrivere un romanzo?
Forse non un romanzo ma più una serie di racconti divertenti o piccole poesie. Una volta ho raccontato ad Erlend Oye che mi sarebbe piaciuto fare un album in cui avrei composto musica per scherzo. Lui mi ha guardato e mi ha detto: “Pensavo fosse già quello che stai facendo…”.

Ultra Orange & Emmanuelle


Gli Ultra Orange sono un duo rock francese formato dal musicista compositore Pierre Emery e dalla sua ragazza, la stylist Gil Lasage. Un giorno su un set cinematografico il fato fa incontrare a Gil la splendida Emmanuelle Seigner e tra le due scoppia una magica alchimia. Donna veramente sexy e attrice libera da ogni imposizione e scelta Emmanuelle ha sempre avuto l’attitudine da rockstar pur non avendo mai cantato, è impossibile toglierle gli occhi di dosso sia che sta recitando in un film o posando per una delle tante campagne moda che oggi la vedono protagonista. Oltre quest’alone hype che circonda Ultra Orange & Emmanuelle c’è però un bel disco, spontaneo, sexy, divertente che rende omaggio alla scena newyorkese degli anni ’60 di Velvet Underground e Nico spingendosi fino ai ’70 dei Blondie di Debbie Harry. Anni carichi d’eccessi e seduzione ed Emmanuelle sa padroneggiare entrambi.

Ciao Emmanuelle, avevi mai pensato di cantare prima d’ora?
Onestamente no! Questo progetto è iniziato per gioco, come fosse un divertimento tra amici, mi hanno chiesto di cantare una canzone e io l’ho fatto, ma in modo molto casuale accompagnata da una chitarra acustica a casa di Pierre. Poi è successo che la canzone è arrivata ad una casa discografica e da lì è partito tutto. Io e i ragazzi ci siamo incontrati due anni fa su un set cinematografico e col tempo siamo diventati molto amici, e credo che questo album è la coronazione di questa forte amicizia.

Che rapporto hai con la musica?
Ascolto rock’n roll da quando sono una teenager: Iggy Pop, Nirvana, David Bowie, Rolling Stone sono i gruppi che amo, la loro musica ha scandito la mia vita, ne hanno fatto parte, ma non mi sono mai immaginata di poter fare del rock in prima persona.

La caratteristica principale del disco è che è molto spontaneo, sembri veramente a tuo agio anche se non hai mai pensato di fare la rockstar. E’ stato un processo naturale per te entrare in questo progetto?
Grazie, hai detto una cosa molto carina, ero perfettamente a mio agio durante le registrazioni che sono state fatte per la maggior parte in una grande casa a Maiorca, che è la mia e quindi ero nel mio ambiente. Ho cantato sdraiata sul letto, saltandoci sopra, in giardino, è un album nato in armonia, in famiglia senza costrizioni dettate dal mercato per questo suona così libero.

In quale modo pensi che la tua figura abbia influenzato la musica degli Ultra Orange?
E’ Pierre che ha composto la musica, i testi e ha prodotto l’album, ma li ha composti pensandomi, un giorno è arrivato sul set di un film inglese che stavo girando dicendomi che aveva scritto un pezzo per me e che avrei dovuto cantarlo. Fidandomi del suo istinto e del nostro rapporto ci ho provato. Noi tre siamo molto simili, ascoltiamo la stessa musica, e abbiamo lo stesso punto di vista su tutto, non avevo mai conosciuto nessuno così affine a me.


Sei un’attrice e ora anche una cantante, ma quando canti dal vivo interpreti un ruolo o sei tu stessa?
E’ ovvio che per me è come interpretare un ruolo, la differenza è che sono libera di fare quello che voglio perché non c’è nessuno a dirigermi e quando interpreti un film dipendi sempre dal tuo personaggio. E’ un ruolo che sento molto mio. Credo che sia la cosa più vicina a me stessa che abbia mai fatto oltre ad aver recitato in Frantic che fu scritto apposta per me.

Onestamente ho sempre pensato a te come ad una rockstar, se un giorno ti proponessero di girare un film biografico sulla storia di una rock band sceglieresti di interpretare Debbie Harry dei Blondie o Kim Gordon dei Sonic Youth?
Onestamente Debbie Harry, so che i Sonic Youth hanno un’ottima reputazione ma non mi sono mai avvicinata alla loro musica mentre Blondie la sento molto più vicina al mio stile e la seguo da sempre.

Come ti sei sentita la prima volta sul palco con gli Ultra Orange?
Ero spaventata come non lo sono mai stata in vita mia e allo stesso tempo eccitata. Oggi che ho fatto già quindici date sono molto orgogliosa di me stessa e mi diverto moltissimo sul palco. Dal vivo facciamo circa quindici pezzi tra cui alcune cover come I’m Sick Of You dei The Stooges, mi sono accorta che tendo a cantare solo canzoni maschili, è difficile per me riuscire a relazionarmi con cantanti femmine. Sono sempre stata un maschiaccio!

Al momento sei protagonista di numerose campagne fashion, come Moschino e Celine, quale stilista senti più vicino al tuo stile?
Ti sei dimenticato GAP! (ride fragorosamente n.d.g.) Non potrei mai scegliere un solo stilista, ce ne sono molti che mi piacciono e credo che ognuno abbia un talento da apprezzare, io amo la moda fa parte del sogno.

Cosa pensa tuo marito Roman Polansky della tua musica?
Mi ha sempre supportato e poi è stato il primo ad apprezzare la mia attitudine rock’n roll, mi ha sempre detto “Tu sei nata rockstar!” Ti ricordo che abbiamo chiamato nostro figlio Elvis.

Gogol Bordello



Eugene Hutz non è un personaggio qualunque, nato a Kiev in Ucraina a quattordici anni scappa con l’intera famiglia in America a seguito della catastrofe nucleare di Chernobyl trovando rifugio a Burlington nel Vermont. Annoiato dalla provincia scappa a New York dove scopre una folta comunità d’immigrati est europei con cui forma in veste di leader i Gogol Bordello. Super Taranta è il quinto lavoro della band, pubblicato dopo il successo di Gypsy Punks ottenuto in concomitanza con la partecipazione di Heugene in veste d’attore al film Ogni Cosa è Illuminata del 2005 dove recita al fianco di Elijah Wood. In Super Taranta punk, folk, ska, dub e la musica dei balcani si fondono in un unico stile che sconfina nel metal.

La musica dei Gogol Bordello è un turbinio di generi che s’incastrano al folk gitano, qual è il criterio con cui è creato ciascun pezzo?
L’intento dei Gogol Bordello è quello di procurare un orgasmo isterico a chiunque ascolta la nostra musica.
In quest’album abbiamo cercato di incorporare il gusto di ciascun membro facendolo esplodere con l’aiuto guida dell’alcool. Lo spirito dei Gogol Bordello è formato da contrasti.

Alla regia del nuovo album c’è Victor Van Vough, storico membro dei The Bad Seeds di Nick Cave, com’è nata questa collaborazione?
E’ difficile trovare un produttore che si adatti alle nostre esigenze, perché è difficile spiegare nello specifico tutti gli elementi che formano la nostra musica, più volte ci siamo trovati di fronte persone che non capivano il nostro intento. Victor è un fan dei Gogol Bordello sin dai nostri esordi, siamo ottimi amici e per questo sa cosa vogliamo, quando gli dicevo: questa canzone è un raggae metal dub, invece di rispondermi ma che cazzo vuol dire? Diceva ok bene, facciamola allora! Lavorare con lui è stato molto spontaneo.

Quando sei sul palco sembri totalmente coinvolto nella performance, come se perdessi ogni controllo, è un atteggiamento naturale o hai lavorato per ottenere questo risultato spettacolare?
Perdersi nella cerimonia del live fa parte del nostro essere. Sono vittima di una sorta di perfezionismo, solo che una volta raggiunta la perfezione mi viene voglia di mandare tutto a puttane per ricominciare da capo, è una strana sindrome lo so.

Ti sei definito un Nuovo Ribelle Intelligente, cosa significa esattamente?
In realtà è un termine che un giornalista ha usato per descrivere la nostra musica di cui mi sono appropriato perché racchiude l’essenza della band. Per me si tratta dell’essere umano, di mostrare a tutti la propria identità, di non aver paura di vivere tutti gli aspetti che la vita ci offre, può essere una bevuta al bar con gli amici, una passeggiata di notte, esporre le proprie idee senza averne paura.

L’alcool è un elemento costante nella tua vita. Lo consideri un amico o un nemico?
Ne l’uno ne l’altro, ma di sicuro la mia vita non sarebbe la stessa senza alcool anche se abbiamo un rapporto difficile.

So che hai recitato in Filth & Wisdom debutto alla regia di Madonna, cosa mi puoi dire a riguardo?
E’ un cortometraggio di cui sono protagonista, ma l’intera band compare è nel film. E’ da un anno circa che sono a conoscenza del fatto che Madonna è una fan dei Gogol Bordello, attraverso amici d’amici ci siamo incontrati e abbiamo parlato a lungo. Madonna è una persona divertente, rispettosa, e collaborativa, mi ha offerto un ruolo nel suo film e io mi sono trovato davanti ad un’offerta irrinunciabile, ero eccitatissimo all’idea di lavorare con lei. Io interpreto un personaggio dall’animo filosofico che in realtà mi rispecchia molto. I Gogol Bordello hanno contribuito con tre brani alla colonna sonora, sono contento di averlo fatto nonostante non ne avessi il tempo, è stata un’esperienza molto creativa, intelligente e superdivertente. Tutti dicono di lei che è una professionista, dopo averla vista diero alla macchina da presa ho capito perché. Per quanto riguarda i brani dei Gogol Bordello direi che danno un tocco “heavy” alla pellicola, aspettate e vedrete!

Kate Nash


Made of Bricks, come titola il suo album Kate Nash è fatta di mattoni, tanti, marroni e piccoli come quelli che si usano per costruire le case nella sua Inghilterra e che la rendono caratteristica. Certo il riferimento per Kate è qualcosa di più profondo, si riferisce alle sue origini, alla famiglia, alle amicizie e alle storie che popolano le sue canzoni, un perfetto bilanciamento tra realtà e immaginazione suonate al pianoforte, un vortice di colori dal retrogusto bitter come canterebbe nel suo adorabile accento cockney che le ha valso il tiotolo di “London’s most charming songstress”. Seduta nel suo tourbus a Norwich nel Norfolk inglese, Kate appare così come la si immagina, con una tazza di tè in mano, si butta sul divano circondata da vari oggetti e giornali come se fosse in camera sua, del resto per tre mesi lo è stata. Indossa solo abiti vintage ma sotto gli stivali che getta a terra lamentandosi del mal di piedi, porta sopra i collant degli improbabili calzettoni di lana da montagna che esibisce con un’invidiabile nonchalance. Impossibile non volerle bene.

Prima di diventare una cantautrice volevi fare l’attrice, quanto credi il teatro abbia influito sulla tua musica?
Molto. Ha influito sia nel modo che ho di cantare sia nei testi che spesso scrivo come se fossero dei dialoghi, io amo le storie e adoro raccontarle, mi piacciono moltissimo i monologhi e vado spesso a teatro a vederli. La mia immaginazione si ciba di questo mondo e lo trasforma sotto forma di canzoni.

Ma quanto c’è di finto e di reale nei tuoi testi che sembrano uscire dalle pagine di un diario segreto?
E’ una combinazione dei due in egual parte, quando racconti una storia è fondamentale colorirla, serve per catturare l’attenzione di chi ascolta. Sono un’attenta osservatrice, mi piace ascoltare le persone e mi piace racontare quello che mi succede senza vergogna ne paura, non bisogna imbarazzarsi di quello che ci capita nella vita, siamo tutti umani no? Ad esempio Foundations parla del valore sentimentale, personalmente non mi sono mai trovata in una situazione del genere ma ho costruito una sorta di copione per il mio personaggio.

Hai mai avuto un diario segreto?
Scrivo tantissimo sul mio notebook e sul mio computer ma non ho mai avuto un diario segreto anche se tendo a scrivere ogni cosa che mi succede quotidianamente, specialmente in questi giorni che sono uno più pazzo dell’altro.

Sei davvero fatta di mattoni?
Certo! Sono fatta di mattoni perché sono cresciuta con valori famigliari molto forti, attorniata da amici che mi hanno sempre sostenuta. Ci proteggiamo a vicenda e ci guardiamo le spalle in ogni situazione, siamo molto vicini e abbiamo un legame costruito su valori solidi, io stessa sto cercando di costruire qualcosa di grande ed eccitante e credo che le fondamenta di una relazione devono essere molto forti per sopravvivere. I mattoni sono un’ottima metafora per esprimere i miei valori e quello in cui credo.

Data la tua fervida immaginazione, come descriveresti a chi non lo conosce il mondo di Kate Nash?
Calmo, colorato, divertente, libero, quando ero una bambina tendevo ad essere insicura come succede a tutti ma non mi sono mai imbarazzata di niente, di fronte ad una situazione imbarazzante ho sempre riso. Adoro parlare con le persone e conoscerne di nuove. Mi piace tantissimo la storia e mi entusiasmo con molta facilità di fronte al nuovo, mi piace farmi sorprendere e spero che la mia musica faccia altrettanto.

Hai detto che ti piace la storia?
Sì, sono appassionata di politica inglese, a scuola annoiavo tutti per questo, ma mi piace conoscere i fatti sotto la giusta prospettiva, e così mi sono documentata suo doveri del Primo Ministro e mi piace molto anche il periodo vittoriano.

Una delle tue canzoni s’intitola Mariella, è un personaggio magnifico perchè s’incolla le labbra per non dover più parlare, chi l’ha ispirato?
Anche io amo Mariella è troppo cool non trovi? Purtroppo però è inventata, è che a volte sono troppo rumorosa e vorrei essere come lei. E’ stato il mondo di Tim Burton a ispirarmi questo personaggio innocente e inquietante come le creature che popolano i suoi film.

Qual’è stata la tua reazione quando l’album ha debuttato al primo posto in UK?
Confusa ed eccitata ho urlato: andiamo ad ubriacarci! Non pensavo di raggiungere la top ten figuriamoci il primo posto. Sono ancora sotto shock.

E’ difficile essere una donna nel music businness?
Sì. Il sessismo è ovunque in questa industria, lo immaginavo ma non a questi livelli. Siamo soffocate dagli uomini, ci sono meeting a cui possono presenziare solo uomini, tour il cui l’intero entourage è composto da uomini, io non sono contro gli uomini, la mia band è composta solo da ragazzi ma le persone che mi stanno intorno cercano sempre di mettermi in un angolo, di dirmi cosa devo fare e come devo farlo, non mi rispettano. Io so ragionare da sola e queste persone le pago per lavorare per me e voglio fidarmi di loro, sono una femminista e voglio scendere in prima linea, non ho nessun problema ad ammetterlo. Sia chiaro non sono anti-uomini sono pro-donne.

Ti senti addosso delle responsabilità per questo?
Sì, una certa responsabilità la avverto, voglio dire guardami non sono magra, non ho le tette grande, non sono una showwgirl, non sono perfetta, non mi ubriaco per poi mandare affanculo e sfottere le persone, sono semplicemente me stessa e voglio mostrare alle ragazze che ai miei concerti, ma anche nella vita, devono sentirsi libere e possono urlare, spogliarsi, saltare, piangere e ridere l’importante è che siano se stesse. Sto parlando di libertà e d’individualità, io non ho problemi con nessuno, se vuoi fare lo strano, lo stronzo, il gotico, il pazzo, fallo! basta che sei te stesso e non unificarti, non diventare come tutti quelli che si vestono da Topshop e H&M, anzi grida, suda, balla, sputa, non devi essere sempre carino per forza tutti abbiamo i nostri fottuti problemi, l’importante è saperci ridere sopra.

A proposito di non unificarsi, sembra che tu abbia una passione per i vestiti vintage, è così?
Amo il vintage, i vestiti, i materiali di cui sono fatti, le stampe, i colori, gli accessori carini, e non mi piace perdere tempo a scegliere quando entro in un negozio vedo subito quello che mi piace e lo compro.

Qual è la frase che dici più spesso?
Non ti sto mentendo. La uso sempre: “Non ti sto mentendo vorrei una fetta di cheesecake al cioccolato!”, “Non ti sto mentendo mi piacerebbe venire alla tua festa!” ovviamente mento sempre.

Hai qualche vizio?
Mi mangio le unghie e non sono capace di prendermi cura della mia pelle nonostante mia sorella sia estetista. Guarda adesso com’è ridotta la mia faccia a dormire su questo tour bus! Ma sono troppo pigra per pensarci.

Hai un sogno ricorrente?
Sì, io sono un piccolo fiore in un grande prato e ad un certo punto un enorme macigno mi cade addosso e mi schiaccia. Io mi sveglio spaventata.

Per finire consigliaci un disco:
Modest Mouse “We Where Dead Before the Ship Even Sank”